Primo Maggio: facciamo la festa al lavoro

         

I tempi sono maturi perché il lavoro venga redistribuito e soprattutto ripensato e ridimensionato nei tempi e nelle priorità. Oggi non c’è niente da celebrare, il lavoro come arma di ricatto, come strumento di oppressione, come continua minaccia non è certamente da festeggiare. Anzi è proprio a questo che dobbiamo fare la festa una volta per tutte e recuperare il tempo per vivere, per amare, per viaggiare, per conoscere, per recuperare un buon rapporto con la natura e con la vita, per dedicarci a quello che più ci piace fare. Facciamo la festa al lavoro come è concepito, organizzato e vissuto oggi, è ora di riappropriarci dei nostri spazi vitali: allora andare a lavorare sarà un piacere, perché la vita da vivere si spalancherà come un orizzonte di gioia. Facciamo dunque la festa al lavoro così com’è ora, i tempi sono maturi.

In questo Primo di Maggio 2021 proponiamo, in ordine sparso, una selezione di testi sul tema del lavoro di:
Lucianna Argentino, Luca Ariano, Gilberto Bugli, Sonia Caporossi, Carmine De Falco, Francesca Del Moro, Virginia Farina, Fabio Franzin, Ilaria Grasso, Fouad Lakehal, Giorgia Monti, Luca Mozzachiodi, Serena Piccoli, Paolo PolvaniMatteo Rusconi, Elisabetta Sancino, Silvia Secco, Claudia Zironi.

    

Buon Primo Maggio!

La dignità non me la dà un salario – Padova 2018 – ph Serena Piccoli

 

 


Luca Ariano:

 

Non credevi fiorissero

i tuoi viali a primavera:

quello sulla strada per Mantova…

sulla Via Emilia.

Dopo il gelo e la neve di marzo

pedali nel profumo serale

di erba calpestata, appena rasata.

Ma cosa sanno loro?

Scriveranno in modo astruso:

solo loro comprenderanno quei versi…

laureati, dottorati, in mano il mondo

dei vent’anni con dietro i soldi

di chi lavorò decenni.

Cosa sanno di operai morti a Pasqua

in una cisterna?

Un algoritmo scriverà tutto,

un robot comporrà testi virtuosi

come le note di Castelnuovo:

cosa pensava sul ponte del piroscafo?

In America avrebbero ascoltato

le sue musiche senza sapere chi fosse.

 

(inedito)

*


Luca Mozzachiodi:

 

Uomo che guarda un telaio

 

I

Questa sarebbe la grande novità,

dischi, pedali e fili da girare

mentre calcolo le pause al prossimo

finire del rocchetto?

 

L’arnese perfetto del padrone

tiene in conto la vita, anche la mia:

l’interruzione del respiro sul ritmo delle cinghie,

le mani che si fanno a ogni giro più certe.

 

Dopo qualche giorno lo posso portare a casa,

riprendere il lavoro non finito,

anche mia moglie poi quando ha capito

come funziona mi potrà aiutare.

 

Cosa volete? I mesi passano,

le bocche da sfamare poi ci sono;

fa il giro l’impiegato per ritirare i pacchi,

ci pagano di più per lavorare.

 

II

Non devo, lo so, che non devo:

questa volta aspetterò fine mese.

Dice il padrone che così non bevo

sto più attento alle spese, mi riprendo.

 

Lo sai che da qualche parte al nord

uno l’hanno distrutto con l’ascia?

Dicono che fa male e che non è

nemmeno da cristiani.

 

Certo a volte mi tremano le mani

non faccio i lavori nel campo e la casa è più buia,

ma l’hanno preso quel tale… quel Ludd.

Vedrai lui sì la pelle ce la lascia!

 

Versa, versa… ma ti dirò una cosa

si sa che nei villaggi c’è scontento,

la crisi del broccato, la guerra con la Francia,

ma anche i piccoli no, non era il caso.

 

III

Questa volta imparano, cinquanta dico

cinquanta ne hanno persi a Manchester

e lo sbirro si è preso anche le botte.

Ufficio di Ned Ludd hanno scritto sul biglietto

 

foresta di Sherwood, come la vedi?

Un bel modo di meritare la forca

e adesso li impiccano di notte,

anche i pastori per evitare martiri.

 

La santa proprietà che non si tocca.

Pena di morte per due ruote rotte!

Passami qua che mi tappo la bocca,

già lo sento com’è che andrà a finire.

 

IV

Domani arriva un tizio fresco

di continente e di quattrini e dice

la grande idea. «Con questo macchinario

io di sicuro riesco a raddoppiare

 

la produzione e a dimezzare il tempo!»

Eccolo lì, scoppia come un drago, che romba

per le vie del mondo, poi spiegaglielo tu

che in provincia non sanno lavorare.

 

Così è un attimo che vengono tutti su

la città si ingrigisce come me,

gli alberi si ingrassano sui liquami

dammene un altro va… non posso più.

 

La tosse non va via,

la casa è stretta come è stretto il mondo

e chi lo sapeva che esistevano

tutti quei posti scritti sul giornale?

 

V

Piroscafi da Canton dico ti sembra

una cosa normale, decorosa? Poi

scaricano al porto e con i furgoni tirano

fino alla fabbrica dove ci stiamo noi.

 

Dove li metti tutti questi figli

di Adamo infreddoliti, questi

avanzi di sobborgo? Devi fare per forza

quei capannoni come erbacce d’autunno.

 

Girano cingoli, catene, piastre e lame,

se non stai attento ci lasci una mano,

io lo dico che ci vogliono

ammazzare tutti!

 

VI

Per mezza bottiglia divento ministro anch’io,

ti gioco in borsa sicuro come la morte

la certa quota delle nostre azioni,

gira e rigira è qui la nostra sorte.

 

Con questi qui non ci sarà più re

vescovo, muftì, bramino o imperatore

che tenga, siamo i distruttori di mondi,

alle piramidi contiamo le ore.

 

Ah non mi confondi con il telegiornale!

e poi chi lo ascolta adesso

che c’è chiasso anche sulla luna?

Versa che è dispari, porta sfortuna.

 

VII

Ho ordinato la fine a domicilio,

arriva in poche ore stanne certo;

mi faccio un po’ schifo, con questo fiato corto.

Potevo essere felice, è colpa mia

 

in fondo, non hanno poi torto,

dipende tutto da come usi la vita,

le cose possono andarti anche bene,

poi però appartengono ad un altro.

 

Lascia la bottiglia, tanto vado via.

Non preoccuparti va tutto per il meglio,

la mano che di noi scrive è incerta e flebile,

presto sarà confusa con le altre.

 

(inedito)

*


Ilaria Grasso:

 

Nella metrica del Prodotto Interno Lordo

non sono previste battute d’arresto

per il bene comune e per l’ambiente.

 

Il mercato si contrae nell’interesse personale

e l’io lirico non comprende più l’universale

nell’avidità stolta del capitale.

 

Il colore verde non evoca più il filo d’erba.

Rimasterizzare Whitman forse potrebbe

essere un’idea, forse.

 

(Inedito da una probabile raccolta dal titolo NUOVO CAPITALE)

*


Fouad Lakehal:

 

Lavoro

 

Alluminio liquido, forno a Settecento.

Tuta in amianto, sali di condensa.

Passa il padrone: Io vi frusto!

Mi fermano i colleghi (l’avrei sciolto).

Venerdì è la nostra notte,

ci fermiamo per mangiare qualcosa,

succede da sempre alle tre di notte.

Alluminio fuso, forno a Settecento.

Tuta di amianto, sali di fusione.

La pressa s’infuria, l’orologio la rincorre,

le nostre facce stravolte sono sbiadite

come la carta della busta paga.

 

Eravamo affiatati, solidali,

ci sosteneva lo scherzoso spirito di sfida,

ci si sfidava tra noi allo sfinimento.

Raffreddavamo le bibite

sotto il getto d’acqua arrugginita,

comunicavamo coi gesti,

parlavamo a intermittenza

tra un colpo e l’altro della pressa.

Mangiavamo panini ossidati dall’usura,

riscaldati sui bordi dei forni aspettando le sei.

Una gioia quando arrivava il camionista francese

che ci portava sempre una bottiglia:

mi piaceva sbirciare l’orologio

quando erano le cinque e quarantasei.

Alluminio fuso.

Tuta di amianto.

Forno a Settecento.

Io c’ero dentro.

 

(Dall’antologia “La nostra classe sepolta” a cura di Valeria Raimondi – Pietre Vive Editore)

*


Serena Piccoli:

 

AFFONDATA SUL LAVORO

 

Sono una ingegnera di 35 anni. Lavoro in una impresa edile e sono di livello più alto di tutti i miei colleghi. Loro vengono chiamati dottor qua, dottor là. Io?
Mi chiamano Federica. Mi chiedono sempre di fare e portare, a loro, il caffè.

A me piace vestirmi con gonna, tailleur, un vestito in estate.
Ieri un collega uomo mi ha detto: che bel culetto che hai.
Mi sono girata, incazzata e gli ho detto che non si permetta più!
E lui?
Ma è una battuta! Non stai al gioco! Sei proprio una principessa. Non capisci gli scherzi!

Ci addomesticano anche sul lavoro.

Chi ha deciso che se indosso vestiti aderenti mi sto offrendo sessualmente? Chi ha deciso che il mio aspetto determina il mio successo sul lavoro?
Chi ha deciso che mi paghino meno per lo stesso lavoro?
Chi decide di scambiarmi per la loro serva?
Chi decide di non riconoscere il mio titolo di studio?

Chi decide di chiamarmi stellina?

Chi decide di chiedermi al colloquio se voglio aver figli?
Chi decide di farmi perdere il posto in caso di maternità?
Chi decide che debba lavorare in ambienti stile caserma tra battute volgari che banalizzano la mia autorevolezza?
Chi decide che ho il ciclo quando esprimo pareri diversi o mi arrabbio?

Chi decide che, in quanto donna, è lecito palparmi?

Chi decide che chiunque è libero di fare apprezzamenti erotici su di me?
Chi decide che io debba avere meno chance lavorative?
Chi decide che una donna debba mettersi una tuta, altrimenti entrano in gioco certe dinamiche? Chi decide che se sono arrivata in alto, è ovvio che l’ho data a qualcuno?

Chi decide di dire alla vigilessa del fuoco che sta andando sul tetto: lascia, è pericoloso, vado io! Chi decide di dire alla direttrice d’orchestra: stai attenta a non dirigere con le tette!

Chi decide di mantenere il caporalato?

La sera, quando i bambini andavano a letto, il proprietario delle serre arrivava, mi mostrava la pistola e io dovevo fare quello che voleva. Cercavo di resistere, gli dicevo che ero distrutta per il lavoro nei campi, che lo odiavo, ma lui minacciava di prendersela con i miei figli.

Chi decide che “non è violenza perché se l’è cercata”?

Chi decide che tutti, autorità incluse, sanno che c’è qualcosa che non va, ma è più semplice fare finta di nulla?
Chi decide che molte delle lavoratrici vivano accanto alle serre, in magazzini abbandonati e baracche di terra battuta con bagni esterni?

Ho 30 anni e tre figli. Nell’ultima azienda il padrone ci provava, fin dalla mattina presto, mettendoci le mani addosso. Io lo mandavo via, ma lui ricominciava sempre daccapo. Un giorno gli ho dato uno spintone e lui mi ha detto: domani non venire più. Così ho perso il posto.

Chi decide che va bene così?

Chi decide che le donne non vogliono rivelare queste cose?
Quando invece lo fanno.

LO FACCIAMO.

Forse sono gli stessi che criticano il parroco durante la messa per aver denunciato queste violenze.

Chi decide di addomesticarci allo squallore, allo svilimento, all’inferiorità?

IO RACCONTO, NOI DENUNCIAMO.

 

(Monologo tratto dallo spettacolo teatrale “Affondata sul lavoro” – voci sul lavoro in Italia, scritto e interpretato da Serena Piccoli, che lo porta in scena in Italia dal 2017)




*


Matteo Rusconi:

 

Le luci del mattino non sono fatte di alba

sono led fluorescenti che investono la via

e la fanno sembrare viva.

La produzione già mi aspetta con i suoi cancelli aperti

e con le finestre degli edifici che sembrano sguardi assatanati.

Le ante dei portoni mi ricordano fauci spalancate.

Le macchine all’interno sono diavoli che non dormono

attendono la mia carne per pungerla e squamarla

sotto vivide luci da sala operatoria.

La fabbrica è una bestia che nera non riposa,

ha denti d’acciaio cariati di polietilene

con cui mi morde polpastrelli e palpebre

e la strada tortuosa è la sua lingua che viscida mi cattura.

La fabbrica è una bestia che mi insegue giorno e sera

reclamando la mia schiena

perché mi vuole possedere con i suoi meccanismi

mentre le luci del mattino

rimangono tremori di stanchezza che non passa

e io sono stanco, tanto stanco di scappare.

 

(Tratta dalla raccolta Trucioli, 2021, Aut Aut Edizioni)

*


Giorgia Monti:

 

Purché sia

 

Ci penso.

Esce silenzio.

 

Stiamo qui

a prendercela

con i pomodori

purché sia altrove.

Ma qui il paese

è fatto di molte rAgioni.

Si coltiva quello che si consuma

purché sia.

Per essere serve carne umana

quando l’automazione

resta progetto d’ingegneria

e si applica all’apparato

organico.

E c o m p e t i z i o n e.

Tutti contro tutti

per fare prima.

 

Ci penso.

Esce silenzio.

 

La geografia economica

non sarà mai per gli ultimi.

Gli ultimi vorranno sempre

essere come i primi.

Un’escalation nulla

nella nostra ruotina

di criceti da fiera.

La guerra dei poveri

io la vivo tutti i giorni

a casa mia.

 

“Capo mio” mi dice

dalla sua bellezza longitudinale.

Io rido, lui ride.

Per diversi mesi

lavora, bene.

La vita sembra

anche un posto plausibile.

Ma poi i tribunali dicono

un’altra cosa

e se ne deve andare via.

“Tranchila” mi dice

“se te bene io bene”

mi dice

mentre io fisso le carte

senza altra

alternativa.

 

(poesia pubblicata in La balena Cicorivolta Edizioni 2020 e nell’antologia La pacchia è strafinita a cura di Versante Ripido, 2018)

*


Virginia Farina:

 

Il pane

 

Prima dell’alba Safyyah s’alza e si lava le mani:

i sogni nella notte potrebbero averle sporcato le dita –

il caffé che gorgoglia scandisce la salita del sole

e il tempo che sfugge scalzo, come i suoi piedi –

Mehemet dorme ancora e lo sente tossire

brontolare qualcosa a qualcuno lontano –

lei mette sul tavolo acqua e farina

mentre il forno già acceso l’avvolge

di un nuovo calore –

la memoria del pane è nei gesti che conosce da sempre

nelle mani che attingono il lievito e lo spingono dentro

la massa abbozzata che solo il lavoro raffina

Safyyah canta in un soffio un canto lontano

mentre s’alza la luce ed affretta l’andar delle mani –

Mehemet si muove e la chiama

e sa che bisogna che il pane sia pronto

prima che lui apra il negozio e cominci

a tagliare la carne –

instancabile spinge e solleva

avvolge e distende

tira la pasta e la batte

con un colpo deciso – schiacciando

le piccole sfere disposte sul legno

fino a farne un disco sottile

che rimarrà bianco anche dopo cottura –

rapida – come per chi ha fretta

e deve partire

e in ogni boccone rinnova

l’urgenza di un viaggio

che sradica e costringe a cambiare

disperdendo le vite

come briciole

su una tovaglia.

 

(19/03/10, dalla raccolta inedita Il seme della terra)

*


Lucianna Argentino:

 

Quando Gaia arrivava alla mia cassa

sul seggiolino del carrello

voleva fossi io a farla scendere.

La nonna protestava sta lavorando,

ma non l’ascoltavamo.

L’ho persa poi in quelle strade oscure

che solo somigliano alla vita.

(In quale precipizio d’anni rimasta intrappolata? 

In quale diverbio tra infanzia e pubertà?

E dove è fisso ora il tuo sguardo muto?

A chi rivolgi quel tuo sorriso immobile?)

Ma poco importa se non mi riconosci

che anch’io sai non mi riconosco

e guardo estranee le mani, i gesti

sempre, sempre quelli, estranei e stanchi

anche gli occhi riflessi sotto i numeri del display.

 

(Ora ragazza/bambina ti vedo al parco o per la strada, giocare

con un mazzo di chiavi; frenetica cerchi per loro un ordine

misterioso, un riscatto al caos che ti fa estranea al mondo tu

viva in intimità a noi nascoste.)

 

(da Le stanze inquiete, La Vita Felice, 2016)

*


Fabio Franzin:

 

Marta l’à quarantatrè àni.

Da vintizhinque ‘a grata

cornìse co’a carta de véro,

el tanpón, ‘a ghe russa via

‘a vernìse dura dae curve

 

del ‘egno; e ghe ‘à restà

come un segno tee man:

carézhe che sgrafa, e onge

curte, da òn. I só bèi cavéi

biondi e bocoeósi i ‘è ‘dèss

 

un grop de spaghi stopósi

che nissùna peruchièra pòl

pì tornàr rizhàr. Co’a cata

‘e só care 1miche maestre

o segretarie, ghe par che

 

‘e sie tant pì zóvene de ea,

‘a ghe invidia chee onge

cussì rosse e longhe, i cavéi

lissi e luminosi, chii déi

ben curàdhi, co’ i sii pàra

 

drio ‘e rece, i recìni. Le

varda e spess ‘a pensa

al só destìn: tuta ‘na vita

persa a gratàr, a gratarse

via dal corpo ‘a beézha.

 

Marta ha quarantatre anni. / Da venticinque / leviga cornici col tampone, / la carta abrasiva, con questi umili strumenti frega / la vernice dura nelle modanature // del legno; e le è rimasto / come un segno nelle mani: / carezze che graffiano, e unghie / tozze, da uomo. I suoi bei capelli / biondi e ondulati sono ormai // un groviglio di spaghi stopposi / che nessuna parrucchiera potrà / più rimodellare. Quando incontra / le sue coetanee, maestre / o segretarie, le sembrano // tanto più giovani, / le invidia quelle unghie / così rosse e lunghe, i capelli / lisci e luminosi, quelle dita / ben curate, quando se li scostano // dietro le orecchie, gli orecchini. Le / osserva e spesso pensa / al suo destino: tutta una vita / persa a grattare, a grattarsi via dal corpo la bellezza.

 

(da Fabrica e altre poesie, Borgomanero, Ladolfi editore, 2013)

*


Elisabetta Sancino:

 

HIGH ABOVE (PONTEGGI A PORTA NUOVA)

 

Penso a come ci si possa sentire

dopo ore appesi a una trave

a guardare le creste del mondo dall’alto

in punta di  piedi sull’orlo impreciso del cielo

ore secche come sabbia

mani spaccate a carpire

la materia che sfiderà il silenzio

delle notti senza stelle né gufo

con un elmetto in testa, come guerrieri

che ignorano la divina proporzione

il gioco di pesi e di vuoti

penso a come si possa sentire un manovale

mero strumento della storia

a colloquio con le vibrazioni inaspettate dell’aria

nei mattini di primavera a Porta Nuova

giorno dopo giorno dopo sferza di vento

riconoscere il peso di ogni neonata ala

le sei iridescenze dell’arcobaleno

senza dir nulla, appollaiato

su un ponteggio di ferro.

Pensa a cosa diresti tu

rigidamente in posa sul tuo divano

cercando di trascrivere l’odore della tundra

il rumore fatidico dell’ora viola

mai fuori di te

mai a testa in giù da un dirupo

mai un piede nel vuoto

mai  vuota davvero.

 

(da Il pomeriggio della Tigre, Terra D’Ulivi edizioni, 2018)

*


Paolo Polvani:

 

Il popolo dei camion

 

Ci accompagna il brulichio notturno del popolo dei camion,

comete di fragore, scie di fulgori a sciami, rivelazioni

dinamiche di merci, movimento di un respiro che si ciba

di solitudine, di fretta, s’agghinda degl’incubi

della mezzanotte, s’infila in un paesaggio di paesi

in agguato, di nuvole che premono e promettono, di piogge

oblique nel brillio dei fari, l’esuberante popolo dei camion

nella festa delle autostrade, nella fuga dei peripli

e dei porti, negli slanci, nelle astuzie dei motori,

trasporta a bordo una fanfara di desideri e smarrimenti,

di fervide illusioni, la luce fende l’umidità, s’inoltra

nella nebbia, dentro il vuoto del presente, si scrolla

ogni pensiero, s’inerpica lungo le scoscese voragini dell’oscurità,

frequenta il mistero, elettrico e inconsistente, specchio

rumoroso, insonne, di tutto il contemporaneo niente.

 

(inedito)

*


Silvia Secco:

 

L’abito bianco

 

Non ha la mia età abito bianco

gigli di campo per la chiesa

la spesa del Sabato, attesa

del domani. (Mi tieni le mani tu?

Sono nude. Bucate. Vuote.)

 

Non ha figli la mia età, non ha

pareti ne’ porte. Qualcuno

è entrato nella notte. L’oro

era nello scrigno. L’han portato via:

l’oro, il lavoro, sogno, fede.

 

In balia della frode non ha

scuse la mia età: sonnecchiava.

Al festare astuto dei giostrai

s’è distratta. Non generazione ormai,

genera soste. Soprassiede.

 

Ha riempito i fogli di neve.

Quaderni e quaderni di niente.

Li disferà il solleone o il viavai

dei coetanei. (Al mattino il vuoto in bocca.)

L’età nella bolla. L’inutilità.

 

(da L’equilibrio della foglia in caduta, CFR, 2014)

*


Carmine De Falco:

 

(…) Enrico quasi a fine turno ferma 

la camionetta alla fine del lungomare 

raccoglie gli ultimi sacchetti e si siede 

sulla panchina di fronte la spiaggetta. 

 

Il traffico lo confonde il fastidio 

della notte agitata non poco

e ripensa a quando anni prima

lavorava pagato a nero e lavava 

i cessi delle discoteche che lordura 

di vomiti e sperma e addirittura

sangue mischiato ai sudori 

alcolici di droghe e tabacco 

bruciato il riverbero dei superbass nelle salive

dei remix la nausea delle grancasse, 

che stordivano, dei beat, a tratti 

tra tutte le cartacce nel piscio rovesciate. 

 

Il mare si schiarisce mentre intorno 

è circondato da quelle tante case a schiera 

non contabili, (…) quelle case 

un po’ sporche un po’ crepate che gli 

danno uno strano peso, il pensiero 

di doverli ripulire tutti quei detriti 

che cadono a ogni folata 

di vento quelle terrazze

con i dondoli e le fioriere le vaschette 

per i gatti, accende la marlboro forte

l’ultima, e lancia il pacchetto vuoto nella sabbia 

lontano verso il nero decolorato dell’acqua 

un po’ nuotata un po’ fogna un po’ 

appassita inspirata, tutta fino alla fine 

un sol fiato, per farsi forza e ritornare meno morto 

al deposito dei rifiuti, alla centrale, a timbrare, 

meno male, il cartellino, manca poco prima 

che la prima sveglia cominci a trillare, una 

e poi un’altra, e fino all’ultima a mattino 

inoltrato quand’Enrico dormirà ancora.

 

(da Italian Day, Kolibris, 2009)

*


Sonia Caporossi:

 

Stachanov

Scavatori, scavatori. Senza fine, senza posa. Siamo stati inviati a terminare i cunicoli bui che anni prima qualcuno di voi cominciò, verso il centro della terra. Sarebbe bello visitarlo, un giorno, se ciò non significasse la morte certa volontaria, ricercata, fluidificata nel plasma liquido dell’ebollizione magmatica. Ma per fortuna, la nostra società medio-occidentale di api laboriose, votate al rosso come colore etico e politico, penetrato ormai fin dentro le nostre pupille cieche da talpa, dedite alla loro incontrovertibile missione d’ingaggio, ancora non conosce l’onta alienata del karojisatsu nipponico, del suicidio lavorativo, dell’annullamento estremo nel dovere, nel potere, nella ricerca del limite delle possibilità antropiche, disumane o troppo umane, o forse talmente umane da diventare determinate dall’esterno, come quelle degli animali. Del resto, io so perfettamente che cosa troveremo qui sotto; tutti noi lo sappiamo. Scavare, scavare, scavare senza posa, senza fine, come nostro ultimo fine. Shhh! Forse incroceremo dall’altra parte della terra altri scavatori come noi, di pelle e di sguardo uguali ma diversi, addolciti nella fatica dal sapor di mandorla amara stampato negli occhi assenti, che non sanno guardarsi dal Grande Timoniere che li guarda, imparentato con ognuno di loro di fratellanza imposta con un timbro posticcio su quelle carte d’identità ciclostilate, oppressi da un potere esercitato sul loro capo dal loro Capo, un potere che noi non conosciamo, che noi non riconosciamo.

[…]

L’unico caso che esula dalla nomenclatura elencata nel Libro Comune del Partito, l’unico esempio concreto di autodeterminazione in forma di potere, è quello in cui qualcuno di noi decida e comandi arbitrariamente a se stesso d’uccidersi. E ho il sospetto che proprio questo fosse l’intento dell’uomo appena morto in qualche tunnel vicino al mio. Ma, in tal caso, si tratta di una cellula tumorale impazzita, di un’eccezione che conferma le regole del Non Sistema Anarchico, di un individuo il quale non necessita neanche di venire isolato perché si toglie di mezzo da solo e così pulisce il mondo; giacché il Partito, che tutto prevede e tutto pensa in anticipo, ha già provveduto ad inoltrarci nelle scabre profondità della terra dividendoci e sparpagliandoci in sette miliardi di buche isolate, di cunicoli indipendenti, di strutture gerarchiche assenti in cui ognuno di noi è anarca completo e felice di se stesso. Il Partito in persona, in questo senso, non è esclusivo detentore di un potere imposto dall’alto, anzi: la sua assenza di potere si riverbera nell’anarchia interiore della mancanza di un fine, che coincide e che consiste nel nostro stesso fine, di cui ognuno di noi detiene la più intima, lucida, confortante convinzione. È così che il potere assoluto non è che assenza totale di potere, è così che l’anarchia è l’unica forma di potere, un potere in potenza che dall’alto verso il basso non si esercita mai se il pariposto non è d’accordo. E d’accordo, ovviamente, siamo tutti. Senza il minimo sforzo. Poiché credo nel fine, in questo fine che non c’è, nella necessità occupazionale di scavare, scavare, senza termine, senza riposo, nel pane azzimo del mio destino preordinato solo da me, annullo l’esercizio della ragione, chiudo gli occhi divenuti ormai inutili, mi rannicchio nella mia metamorfosi kafkiana, mi trasformo anima e corpo in una talpa. Convinto intimamente che l’esistenza non sia affatto un fallimento, queste care pareti di tufo non crolleranno mai su di me schiacciando la mia vita e la schiava libertà del mio eterno lavoro stampigliato sui cromosomi alieni di una Specie in estinzione, che vede il sorgere di un futuro luminoso alla fine pensata di un tunnel concreto. L’anarchia è la morte spontanea, verso cui tutti noi tendiamo. Noi, talpe immolate al Non Sistema, con il muso gocciolante, gli occhi ciechi, le corde vocali rattrappite, i baffi lunghi e sensitivi e le orecchie ritte ad ascoltare ogni scricchiolio sospetto: il fine, il fine è la nostra salvezza, il nostro destino, il nostro imponente, impotente e indeciso daffare.

 

(estratti da Stachanov, racconto contenuto in Opus Metachronicum, Corrimano Edizioni 2014)

*


Claudia Zironi:

   

Il limpido specchio d’acqua

artificiale, posto davanti

alla sala convegni

si increspò appena

alla constatazione dell’elegante

relatore: Paola F.

ha avuto buoni risultati

nel 2017 nonostante

la congiuntura di mercato

nonostante lei sia da poco

arrivata in azienda, nonostante

che sia donna.

 

Convention M. SpA, 23 gennaio 2018

 

(dalla raccolta inedita Cronache dal mondo di sopra)

*


Gilberto Bugli:

 

A i sò sèmpra stè

 

T’ lezarè sta lètra

cvànd ch’a n gni sarò piò,

ch’u s’fà prèst a dói

ta n gni sì mai stè,

che al cvàtri a stèva sò

e via se camion

par turnè a chèsa la nóta

e tè t’durmiti zà,

ch’u s’fà prèst adès

ma cla vólta

s’na muntàgna ad dèbti

e snò dó bràzi da raspè

par sgavagnès e’ pèn,

e che t ci dguènt grànd

e ta n mè mai vèst,

snò la dmènga e mè

a s’èra acsè stràch

ch’a n gne la fèva

a stachém da e’ lèt,

mó mè vút ch’a n ti pansèss?

At pansèva sò per e’ Viamàz

sóta la nóiva e al mèni

ch’u i dèva ad mórs e’ frèdd

a muntè al cadóini

a cavèm dai fóss

par fèt una carèza.

T’ lezarè sta lètra

cvànd ch’a n gni sarò piò

ma tè da savói

ch’a i sò sèmpra stè.

A i sò stè cvànd t ci nèd

cvànd te dè la próima titèda,

a i s’èra cvànd t’è pórt a chèsa

la pagèla piò bèla dla scóla,

a i s’èra cvànd t’è fàt che gol

ch’avói vóint e’ campiunèd,

cvànd t’è fàt a bóti

tè cóuntra tré ch’i gióiva mèl ad mè,

e tót al vólti che e’ cuntèva

a i s’ò stè.

A n gni sò mai stè

ma a sò sèmpra stè alè.

 

Ci sono sempre stato

Leggerai questa lettera / quando non ci sarò più, / che si fa presto a dire / non ci sei mai stato, / che alle quattro mi alzavo / e via col camion / per tornare a casa la notte / e tu dormivi già, / che si fa presto adesso / ma quella volta / con una montagna di debiti / e solo due braccia per raspare / per salvarsi il pane, / e che sei diventato grande / e non mi hai mai visto, / solo la domenica e io / ero così stanco / che non ce la facevo / a staccarmi dal letto, / ma vuoi che non ti pensassi? / Ti pensavo su per il Viamaggio / sotto la neve e le mani / che le morsicava il freddo / a montare le catene / a levarmi dai fossi / per farti una carezza. / Leggerai questa lettera / quando non ci sarò più / ma devi sapere / che ci sono sempre stato. / C’ero quando sei nato / quando hai dato la prima poppata, / c’ero quando hai portato a casa / la pagella più bella della scuola, / c’ero quando hai fatto quel gol / che avete vinto il campionato, / quando hai fatto a pugni / te conto tre che parlavano male di me / e tutte le volte che contava / ci sono stato. / Non ci sono mai stato / ma sono sempre stato lì.

 

(inedito)

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Francesca Del Moro:

 

proviamo ancora col rosso*
rosso di alba ottobrina rosso romano di belle ombre sulla pietra rosso di bandiere rosso di cappellini rosso di guance accaldate rosso di occhi stropicciati di sonno rosso di maglie rosso di pettorine rosso di foulard rosso di palloncini rosso sdegno per il rosso sangue sulle tute blu rosso sangue che verrà sulle camicie bianche rosso sulle maniche arrotolate rosso sulle rosse maglie sulle rosse bandiere sulle rosse pettorine rosso su blu rosso su bianco rosso su rosso 
proviamo ancora col rosso

 

(* cit. Elio Pagliarani; poesia tratta da Gli Obbedienti, Cicorivolta Edizioni, 2016)

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