Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Silvia Rosa

 

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È quel gesto che resta sospeso a metà,
la dirittura d’arrivo di un progetto
per un niente mancata, il filo di capelli
appeso come un sonaglio reattivo
al primo dente del pettine,
la velatura di madreperla che omette
le evidenze familiari del corpo, precisamente
è questa la dolenza che lasciano in sorte
quelli che se ne vanno, di spalle:
si avventurano dentro un budello argenteo
di zinco e fosfeni, fino a un risucchio lattiginoso
di luce, non sentono i nostri richiami
a voltarsi, a rientrare, oltre le soglie
di vetroresina da cui li osserviamo
perdere consistenza, diventare ricordi.

Dove ritrovare le loro orme di odori,
le ragioni della distanza, i loro commiati?

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In caso di necessità rompere il vetro:
uscire dal campo recettivo, seguire
le coordinate che conducono alla curva
dello stupore, dopo una rotazione di 360°
favorire l’orogenesi della spina dorsale
diritta, per meglio fissare il teorema della creazione,
allenare il terzo occhio, la ghiandola pineale,
il sesto senso, darsi alla melatonina in giuste
dosi, alleggerire le pupille vedette dal vizio
delle proiezioni, trafugare la frenesia degli amanti
e riprodurne gli aromi, dilatare il quotidiano
in campiture di bianchi perla, non scambiare
con nessun altro bene la scorza di protezione,
accettare l’imprinting di un animo bifido.
Soprattutto, individuare subito, per prima,
fra tutte le altre evenienze, l’uscita d’emergenza

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Non eravamo pronti al dinamismo borderline
delle stagioni, a curvare gli sguardi
in una torsione, avvitandoli, fino a divaricare
il cristallino in congetture di salvazione.
Uno switch ha diretto le nostre giornate
in agglomerati di lontananze, un inverno
genuflesso alle abitudini e poi la collisione,
il cielo bisestile, il triangolo equilatero
della paura, ogni passaggio interrotto.
È stato l’avamposto delle gemme, in meno
di un nanosecondo, di taglio, a suggerire che
nonostante il distacco tra cornea e presente,
eravamo arrivati a una piazzola di sosta,
10/10 e 59 diottrie dopo, presi a guardare
di nuovo all’intorno le foglie emergenti,
tra un’antenna di fiori e una biocella
di compostaggio, il riavvio del sistema
trasmutato casualmente in una rinascita

 

Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, sono apparsi in riviste, siti e blog letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue pubblicazioni: l’antologia fotopoetica Maternità marina (Terra d’ulivi 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; le raccolte poetiche Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore 2018), Genealogia imperfetta (La Vita Felice 2014), SoloMinuscolaScrittura (La vita Felice 2012), Di sole voci (LietoColle Editore 2010 ‒ II ediz. 2012); il saggio di storia contemporanea Italiane d’Argentina. Storia e memorie di un secolo d’emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni 2013); il libro di racconti Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni 2010). È vicedirettrice del lit-blog “Poesia del nostro tempo”, redattrice della testata online “NiedernGasse”, collabora con il blog di letteratura “Margutte”, con la rivista «Argo» e con il quotidiano «il manifesto». È tra le ideatrici di “Medicamenta – lingua di donna e altre scritture”, progetto di Poetry Therapy che propone una serie di letture, eventi e laboratori rivolti a donne italiane e straniere, lavorando in una prospettiva 76 psicopedagogica e di genere con le loro narrazioni e le loro storie di vita. Ha intervistato e tradotto alcuni autori argentini in Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici (edizioni Versante Ripido e La Recherche 2017).

 

 

In questi testi che ho scelto dall’ultimo lavoro poetico di Silvia Rosa, Tutta la terra che ci resta (Vydia Editore), si esemplificano tre modalità espressive del poetico prevalenti in un orientamento che potrebbe essere definito agevolmente in termini di meta-descrittivismo. Nel primo testo, l’istanza definitoria (espressa nella forma logica “(x) è y”) si fa elencatio figurale, scarto analogico del peregrino, fino a raggiungere quella pregnanza del semantema (gest-, vel-, dol-) che trasfigura nell’indistinzione e nella distanza coacta, a significare il commiato che normalmente si dà ai morti passati-attraverso il tunnel definitivo (e proprio per questo, definitorio) della morte come un prendere atto dell’interruzione delle comunicazioni bidirezionali tra universo materiale e sostanza animale nella dimensione del ricordo. Nel secondo testo, l’uso reiterato delle proposizioni infinitive, già novecentesco, assume il valore di un’indeterminatezza vagolante nel mare magnum del senso, che raggruma l’indeterminato residuale dell’esistenza e del nostro essere-nel-mondo come individui accomunati dal medesimo destino, quello di darsi per l’appunto un senso nel non-affatto-semplice svolgimento quotidiano del vivere. Nel terzo componimento, del resto, il pronome di prima persona plurale (noi), anch’esso cadenza consolidata già novecentesca, si rinnova nell’ordine preciso del mutamento, cadenzato dalle virgole, dagli enjambement, dagli accostamenti volitivi, in direzione di una poesia densa e compatta che apre orizzonti e che non lascia spazio alla banalità ma contemporaneamente non per questo de-cade necessariamente nell’ipercostruttivismo di maniera.