Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Alberto Biscaldi

 

Pianura

Lampi, nuvole scontrarsi in cielo,
ma non sentendo alcun tuono: troppo alti
sopra le nostre teste, strati di atmosfera
a separarci, tanto che penso
finiremo per non sentire
del tutto.
Mi dicevano da piccolo:
“Qui non accade nulla. Non preoccuparti delle nubi
e del vento umido che promette pioggia.” – Il peggio
è sapere che ogni lampo
qui ovattato e muto
altrove è una tempesta, una scusa
per tenersi stretti a letto, per dirsi
ti voglio bene, oppure
ho paura: una cosa qualsiasi

che ci leghi.

*

La mia notte

So che mi ami abbastanza
per sopportare la mia assenza.

Vengo per dirti: aspetta; le cose
non sono tutta materia che si sfalda.

Alcune restano aggrappate lungo il centro
se c’è un centro; ma a te che conosci
la mia notte, dico:

quello che resta aggrappato della vita
alla vita
è un’assenza; significa: il centro è assente
per sua natura.

*

Logos

Guardare in alto: la prima forma
di rapporto. Poi: pensare,
di conseguenza, parlare.
Tutto ciò che faccio, lo faccio
per trovare funi, rocce
a cui aggrapparmi.

Sviluppare i sensi, la vista, il tatto
solo per riconoscerti, vedere
da chi dipendo; sopravvivere:
distinguere aria da fuoco, fuoco
che è aria che brucia.

 

 

Alberto Biscaldi (Vigevano, 1999) vive tra Milano, Parigi e la provincia di Pavia. È dottorando in letteratura presso l’Università Cattolica di Milano e la Sorbona di Parigi, e si è laureato in lingue e letterature moderne con doppio titolo presso gli stessi atenei. Sue poesie sono state pubblicate sulla rivista internazionale «Gradiva. International Journal of Italian Poetry» (Olschki). Ha tradotto dall’inglese alcune poesie di Louise Glück. A livello critico, si occupa soprattutto di Louis-Ferdinand Céline. Inoltre, ha esperienza in ambito teatrale e televisivo.

 

Attraverso l’amore, con questi testi inediti di Alberto Biscaldi, recuperiamo la funzione riflessiva della ragione che in Platone ha le ali tarpate dall’ineffabilità e dall’inconoscibilità del Sommo Bene, e scendiamo sulla terra. Troviamo, quindi, un oggetto d’amore confacente al caso nostro, che circonfonde di essenza spirituale la dimensione della materia (“le cose / non sono tutta materia che si sfalda”, dice il poeta), un oggetto non adibito a pura contemplazione, ma al tatto, alla sintesi sensibile della fruibilità corporea, e quindi non meramente ideale, bensì essente, ontologicamente concreto e manifesto (“Sviluppare i sensi, la vista, il tatto / solo per riconoscerti, vedere / da chi dipendo; sopravvivere”). Un tale oggetto d’amore, ancorché avvolto dalla terrificante azione disgregatrice della tempesta, di qualsiasi forma metaforica di sconvolgimento fenomenologico del reale (“strati di atmosfera/ a separarci”), è tuttavia pur sempre proteso verso una sorta di epistrofè, di faticosa e diligente elevazione (“Guardare in alto: la prima forma / di rapporto”). Così, i due amanti tentano di trovare una dimensione salvifica e autoconservativa nel caos del qui-ed-ora, ovvero, cercano di restare “aggrappati lungo il centro”, in un’immagine ricorrente di sospensione scalatoria nel vuoto che mette in evidenza la difficoltà del gesto ultimo del sopravvivere; tanto che, in fin dei conti, “quello che resta aggrappato della vita / alla vita / è un’assenza; significa: il centro è assente / per sua natura”. Sembra l’esatto capovolgimento dell’assunto di Blaise Pascal, in base al quale “Dio è una sfera infinita, il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo.” come a dire: non c’è scintilla divina nell’amore, è solo una forma consolidata di resistenza, di sopravvivenza, di leopardiana solidalità. Ecco che allora, attraverso l’amore, potremmo anche far pace con Platone ma non potremmo mai comunque accedere all’insondabilità suprema del Principio, quel medesimo principio che non ci è dato conoscere fino in fondo ma, al limite, solo desiderare nell’ambascia dolcissima dello struggimento e della volontà di conoscenza. Eppure, proprio poiché non abbiamo questa conoscenza suprema, la desideriamo, come un oggetto d’amore che aneliamo e che continuamente ci sfugge. Ma essa rimane inevasa, un puro barlume di qualcosa come di un’assenza pienamente vuota, un persistente cercare dove il non trovare, alla fin fine, è esito secondario, non troppo importante: e allora, non ci resta che la consapevolezza sensibile, attraverso la quale “distinguere aria da fuoco, fuoco / che è aria che brucia”. Quella di Alberto Biscaldi è una poesia presocratica, fisiologica, elementale, che nasconde stratificazioni profonde oltre l’evidenza del tema amoroso, solo apparentemente abusato. Restiamo in ascolto dell’eco gnoseologica di questi versi e attendiamo con fiducia l’opera prima.