Oltremare, raccolta di Virginia Farina (Terra d’ulivi Edizioni, 2020), recensione di Luigi Paraboschi

     

In momenti storici come quelli che l’Umanità sta attraversando da qualche decennio, caratterizzati dal fenomeno delle emigrazioni e, in particolare, dagli approdi lungo le coste del Mediterraneo, è assai frequente imbattersi in lavori poetici che cercano di fare breccia nei lettori servendosi di forme espressive emotivamente coinvolgenti, lasciando però spesso cadere il pregio letterario dei lavori per accentuare  una sorta di pressione emotiva e sentimentale sui lettori.

Con questa premessa intendo dire che scrivere poesia “civile“ sul tema della partenza dal proprio paese natale per approdare in terre sconosciute per cercare accoglienza, è opera che richiede onestà intellettuale e capacità di confronto franco  tra l’interiorità degli autori e gli avvenimenti presi in esame.

Leggere pertanto questa raccolta di  Virginia Farina, mettersi a riflettere su di essa, cercare di scavare dentro ogni verso quanta verità  contenga e quale sia il punto di avvio della sua scrittura, è un lavoro indispensabile ed utilissimo per comprendere le motivazioni dell’autrice.
A me è parso poterne  identificare  l’avvio dentro i versi a pag.20 della sua opera, dai quali si capisce con chiarezza quale spazio interiore si crea in ogni anima quando si ripiega su se stessa e medita

…di te cerco il silenzio/ lo spazio che sconfina in niente/ la vertigine di un vuoto/ che sa di soglia/ al mistero dell’esserci alla vita/ senza nome

 e  mi sento di aggiungere anche questi di pag.14  che chiariscono meglio al lettore il luogo in cui ha origine sia lo spazio che il silenzio, cioè la sua terra di origine,

…e tanto, tanto mi hai nutrito/ fino ad espellermi, fino a farmi/ altra isola da te/ con in mezzo un mare a segnare/ il confine provvisorio.

È la parola “isola“ quella che pone domande al lettore e gli fa intuire la terra di provenienza della scrittrice. Lei proviene da un’isola, la Sardegna, e credo che sia molto difficile per chi è nato o è vissuto a lungo in un luogo non bagnato dal mare, riuscire ad afferrare la sensazione di solitudine che spesso attraversa la mente degli abitanti di questi posti.

A questo proposito inserisco un brano da una intervista concessa dalla poetessa anch’essa di origini sarde Antonella Anedda al giornale “ Il manifesto “ nel marzo 2021:

“Delle molte isole che compaiono sulla faccia della terra bisogna avere sguardo per poterne parlare. Esserci immersi o averne abitata una, almeno una volta. Per esempio dal Giappone alla Sardegna, dall’Islanda alla Corsica o a Rodi, l’occhio è di chi sa cosa significhi essere in una esposizione, con le differenze materiali per ciascun contesto, in un’isola non accade ciò che invece si configura nel Continente che – come suggerisce il termine – contiene. Da una parte ogni strada ha un epilogo marino, nel continente no. Negli arcipelaghi non sempre.

Anche Farina scrive a pag.17:

non è la gravità a sopraffarti/ forse un desiderio di centro/ che t’incurva l’ombelico

e la sua sensazione di estraneità la si legge meglio  a pag.11 in questi versi di certo pensati  in luogo lontano dalla terra di origine:

…qui, dove sono/ non ho lingua per dire il mio nome.

…qui, dove sono/ sono una cosa/ tra le cose/ sono un uomo/ tra i tanti/ sono pensiero/ con altri pensieri. 

Ma oltre al legame con la terra che si legge nelle poesie iniziali che sono parte del gruppo  di apertura LE RADICI c’è, e molto profondo, quello con il padre e la madre. Lo capiamo da questi versi a pag.9:

…qui, dove sono/ io non posso essere altro/ che il nome di mio padre

le radici  e le tradizioni sono ben forti dentro il passato, e leggiamo ancora a pag.9

…e l’acqua/ fiorisce radici / sulle tombe dei morti./ ogni cosa ripete sé stessa/… ogni nome è custodito dal silenzio

Suona a proposito il titolo di questa poesia di Cesare Pavese che dice

Un paese vuol dire non essere soli, avere gli amici, del vino, un caffè.

Anche Farina ribadisce a pag.16 il senso di appartenenza ad una storia, a una tradizione di vissuto

così un mandorlo è succo a pesche polpose/ e varietà agresti raffinano specie// per mano dell’uomo che guida e incanala/ eppure non spiega/ che cosa incubò/ il primo seme

Da quanto sopra esposto appare netto che il distacco dal padre sia causa di un dolore continuo. Lo si legge a pag.10

…Quando saluto mio padre/ e la sua mano aperta/ mi domando s’esiste un mattino/ senza dolore

Resta indelebile in lei  il  ricordo dei movimenti del padre nella quotidianità, osservati nei gesti più semplici del vivere con uno sguardo pieno di affetto, sguardo che  si porta via con la partenza, a pag.22

non dici nulla/ mentre con la sinistra riponi/ ciò che dismetti/ e la tua destra coglie/ ciò che ancora serve:/ un poco di calore/ una preghiera/ un desiderio di pace/ che mastichi lento/ infilando la notte//

Le figure del padre e della madre sono osservate con occhio di pittore, rimandano a certi personaggi del sud ritratti da Carlo Levi e ancora più da Renato Guttuso.

Prestiamo attenzione a queste parole di pag.22 che dipingono una persona un po’ anziana che cerca di abbottonare la camicia o altro, ed è in difficoltà a causa  delle sue mani ispessite, callose, indurite dal lavoro.

…ti saluto mentre il bottone/ pigro insegue l’asola/ e ti sfugge tra le dita/ impacciate, curve/ come rami, nodose/ pratiche solo di terra a di fatiche 

Pure la figura della madre appare a pag.23 al lettore come scolpita nel legno d’ulivo

…le braccia sui fianchi/ in discesa dal monte/ con il viso di sasso/ spaccato d’estate/ con le mani imbiancate/ le ossa asciugate e fatte piccine

…Non la malattia non la vecchiaia/ Non l’artritica resa né il decadere/ fanno il tuo corpo ritorto e curvo/ ma il vento e l’arsura della tua terra/ che s’apre in te in geografia di ritorni/ e ti scava e ti tende  da dentro/ come sughera in sete di sole

È giunto il momento del distacco dalla casa e dalla famiglia, e la madre è ancora ritratta nella sua affettuosità silenziosa di pag.24

…Mentre mi saluti ancora il tuo viso/ ha il colore delle pietre antiche/ composte nel rigore della casa/che hai ereditato dai tuoi padri./ Hai il colore della terra rivoltata/ e il suo silenzio denso di promesse/ il tuo saluto accennato con il viso/ disegna l’arco d’un seme rilanciato

...Ora non mi resta che il tuo sguardo-/ sulle spalle e la tua mano curva/ lanciata a benedire/ e questo andare all’altra riva/ a tentare il costo/ d’un ricominciare 

Mi sono dilungato nel descrivere il quadro dentro il quale l’autrice  si muove al suo primo distacco dalla terra madre, ma la sua abilità di fare poesia appare meglio nelle pagine seguenti quando ci rimanda ad altre partenze, di coloro che fuggono dai paesi di origine, affrontano viaggi per terra e per mare portandosi addosso la sofferenza, la miseria, con la sola speranza di approdare finalmente in luoghi ospitali.

A pag.27 leggiamo, e trascrivo per intero tutta la poesia nella quale è descritto  lo spasimo che attraversa l’anima di coloro che se ne vanno:

Il vento che s’alza
ci fa sballare il cuore
sospesi
tra il desiderio di partenze
e l’attesa
di ogni ritorno 

versi dai quali  noi  immaginiamo ciò che passa nel cuore di coloro che salpano per attraversare, in compagnia di altri derelitti, il mare pieno insidie.

Leggiamo a pag.33 l’angoscia di una di quelle persone

…del mare io/ non so che la riva/… Non so l’apertura al largo…/ Non so il sapore del vento… non so del silenzio che assorda la notte/ quando il mare s’ingrossa come in rivolta….ma pure ci provo e pronuncio/ ora quel che non so// Come esercizio d’amore/ come un esserci, umana

L’autrice a questo punto si immedesima profondamente nel cuore dei profughi e le accosta  alle sue partenze da casa, ma anche a quelle di tutta l’umanità che si trasferisce fino dalla preistoria  da un posto all’altro, portando in altri luoghi le esperienze dei “viaggiatori di galassie“.

 Vediamo a pag.28  le modifiche all’umanità  che avvengono attraverso  i movimenti delle genti:

…Mentre vanno / le folle senza sosta/ Le idee che si trasformano/ nutrendosi di passi/ e viaggiano parole/ nei suoni delle lingue/ nei segni della storia/ nei corpi delle madri 

Tutto dei migranti si muove con loro:

…viaggiano le ombre…. L’andare delle vite sugli argini del tempo… spinge, esonda… espande dall’interno/ nuove forme/ anche ora-qui-/ mentre noi siamo insieme/ sul ciglio di galassie/ lanciate all’infinito 

L’andare ci fa umani, aggiunge nella stessa poesia che avrei voluto riportare per intero nella sua complessità:

…È una finzione la nostra pretesa/ in traversata, l’aver per certo/ il corso dell’andare come il porto// la stessa fragilità di carne-/ ci arrossa con la sera/ e ci fa umani/ anche quando non sappiamo

Il dolore che accompagna le genti è nei loro gesti, nei loro pensieri, specialmente in quelli che riguardano il futuro dei figli, a pag.40

…figlia che sei la terra intera/ che sei quest’ora madre di domani/ che sei miracolo di quel respiro acceso/ che pure si dimentica/ vivendo

e a pag.41

…Figlio, generato dalla fuga/…figlio orizzonte di un arrivo/ figlio, figlio, non di questo parto è il mio dolore/ ma per il mondo che si mura/ alla tua vita

Quel mondo che si mura è un’accusa terribile, ripete Farina a pag.43 che parla  del corpo ritrovato sulla spiaggia di un ragazzo profugo.
Era fuggito dal suo paese recando con sé, cucito dentro gli abiti, il proprio diploma scolastico, che fu rinvenuto intatto  e sul quale erano ancora ben leggibili i voti ottenuti a scuola

…tutto con me è morto affogato/ tranne quanto con cura ho piegato/ e neppure l’acqua l’ha cancellato:/ al fondo il mio nome è stato salvato.

Nella parte sotto il titolo L’ALTRA RIVA la poetessa si avvia alla conclusione  e porta alla superficie i sensi di colpa che dovrebbero attraversare tutti noi e la nostra ignavia di fronte allo scandalo dell’indifferenza.

Lo fa a pag.51 

quando mi chiederai un giorno/ se c’ero / altro non avrò da risponderti/ che sì c’ero/ e sapevo/ ma sapevo / senza sapere perché/ fosse toccato a loro quel duro destino/ e a me questo di stare a guardare/ da questa parte storta/ dello stesso mare

Le poesie finali di questa raccolta si potrebbero raccogliere con il titolo “atto di dolore“ da  essere recitato da tutti noi che non abbiamo risposto alla domanda fondamentale di pag.61:

…non è di carne l’uomo che ti guarda? 

Vediamo la riflessione di pag.64

…noi siamo insieme/ in questo spazio denso di figure-dove la mia vita e la tua/ si muovono insicure/ cercando tenerezza/ e qualche conoscenza di passaggio- che illumini la strada/ in traiettorie da seguire/ in costruzione

 e leggiamo ancora  a pag.59

…non il silenzio/ non l’abbandono/ neppure la morte/ hanno fermato/ l’Uomo                                                                                                                                                                                 

e quanto scrive a pag.65

È necessario/ al cuore un rifugio che contenga/ l’inevitabile tempo del rimorso/ dove da se stesso si condanna/ riversando nel mondo le sue colpe

Infine lascio al lettore questo interrogativo drammatico che troviamo  a pag.62

È grave il perdono se non vuole/ penitenza?

Farina scrive quella che qualcuno ha chiamato “poesia onesta“ e lo fa con chiarezza. Leggendo i suoi versi ci rendiamo conto quale sia la sua posizione ideologica. È quella di una persona che si interroga sul mondo nel quale vive, lo fa senza pregiudizi o retorica, prende nota degli avvenimenti, li osserva, si immedesima in essi e si colpevolizza ma senza infierirsi addosso per le inevitabili mancanze che la nostra umanità porta dentro le proprie radici. È un’anima in ricerca che capisce, ama e sa di certo perdonare.