Note di lettura a Elleboro di Gugliemo Aprile, Terra d’ulivi Edizioni, a cura di Valentina Soranna.

    

La raccolta ‘Elleboro’ di Guglielmo Aprile si presenta come un testo interessante, dal lessico ricco e variegato, che alterna lo slang della quotidianità odierna a echi linguistici di un passato delle origini magno-greche: in questo, senza dubbio, si percepisce un elemento di forza non indifferente, che va ad aggiungersi ad una buona alternanza tra ironia e nichilismo, segno della maturità raggiunta.

Nonostante un certo pessimismo di fondo appesantisca forse il testo in taluni momenti, la divisione delle ‘stanze letterarie’ risulta funzionale alla lettura e spalanca una visuale disincantata sulla realtà, ora palese ora ricostruita nella mente, che assume sfumature di sogno e incubo (talvolta crudeli, ma mai slegate dal contesto). Gli ambienti sono ben costruiti e proiettano il lettore nella dimensione voluta, sempre abitata, fatta di echi e silenzi.

Di particolare pregio alcuni componimenti, come Dogana e Non si parla degli assenti: quest’ultimo, diviso in tre atti, riassume bene il dialogo perenne tra l’uomo e le forze naturali, fatto di domande ataviche a cui non c’è risposta.

All’uomo e al suo sentire, dunque, l’ardua sentenza.

     

      

Dogana 

     

S’invecchia male 

anche nelle case meglio arredate; 

dopo il gioco a chi indovinava prima 

le imitazioni dei vari animali

e la visita al museo delle spezie, 

uno alla volta 

tutti ci arrenderemo a una diversa onda 

e dovremo non perdere la calma 

di fronte alla sua confessione, 

la compagna dell’ultimo giro di ballo 

ci chiamerà da parte, 

avrà qualcosa di importante da dirci: 

svuotiamo le tasche di carte inutili, 

non si arriva all’alba senza una buona scorta, 

e preghiere, e oppio da scambiare 

con la gente delle paludi.  

*

 

Non si parla degli assenti 

       

    

L’oceano domanda ad ognuno 

cosa per lui significhi essere vivo, 

per tutti la risposta 

è uno sgabello con un piede di meno 

o una parola detta a metà sbadigliando. 

Uno alla volta entriamo nella stanza 

senza sapere a farci cosa; poi 

la collina ci inghiotte 

nella sua ombra.  

    

(…)

 ad uno ad uno gli orologi pubblici 

con polso sempre più fioco misurano 

l’ozioso girotondo dell’oceano, 

i ganci perdono presa nei muri,

la trave portante è marcia per l’umido, 

l’argano va sfilandosi dai perni; 

la storia dell’uomo che leccava i citofoni 

ha fatto il giro del quartiere, 

domani il cielo apparirà una lastra 

di un muco bianco impossibile a sciogliersi.  

*