Miliaria di Maria Laura Valente | Cinzia Marulli, Autobiografia del silenzio (La Vita Felice, 2022)

 

Se, sulla scia di Freud, ripensiamo, risemantizzandolo, il verso di Wordsworth the Child is father of the Man[1], risulterà inevitabile comprendere quanto l’assunto psicanalitico das Kind ist der Vater des Mannes sia orientato a riposizionare criticamente il bambino nel ciclo vitale, affidandogli una funzione generatrice nei confronti della psiche adulta[2]. Nel vissuto dell’infanzia, e nel suo conseguente portato mnestico, il trauma, etimologicamente inteso[3], rappresenta una profonda ferita, il cui tessuto cicatriziale può dissestare la linearità dello sviluppo psichico dell’adulto, massimamente se lo si interpreta come «ciò che non può essere rappresentato o detto […] ciò che fa fallire la capacità della vita mentale di cercare continuamente in un orizzonte di senso il fondo traumatico che lo alimenta»[4].

Quanto può, dunque, essere arduo il compito del dire l’indicibile, del riconsegnare, in virtù della parola poetica, il proprio vissuto infantile a un’apertura – o, quantomeno, a un’ipotesi – di senso che permetta, heideggerianamente, di abitare poeticamente il mondo[5]?

È questa l’impresa in cui coraggiosamente Cinzia Marulli si cimenta, affidando al suo ultimo lavoro, Autobiografia del silenzio. L’orco e la bambina (La vita felice, 2022), il delicato compito di riesumare un trauma infantile, il più esecrabile che una bambina possa subire, sepolto da decadi nelle catacombe della memoria: la violazione della purezza, lo strappo nel velo della carne, l’esilio dall’età dell’innocenza. Il disvelamento poetico della ferita è stato un atto lento e cadenzato, che ha richiesto un lungo processo di elaborazione interiore, volto a scardinare meccanismi di autoreificazione (la mutazione da bambina in bambola), autocolpevolizzazione (la bambina cattiva, la bambola brutta) e derealizzazione (la sistematica rimozione degli occhi dalle bambole), per convertirli in una climax ascendente di dinamiche positive, generatrici di senso: consapevolezza, accettazione, amore, perdono. Lungo questo percorso, i sentimenti puri e la maternità hanno giocato un ruolo cruciale e salvifico, contribuendo all’innesco di una carica palingenetica che è deflagrata compiutamente nella rielaborazione poetica del taciuto, nel momento in cui la penna ha iniziato a scavare tra le costole, quelle stesse costole in cui si era celato un silenzio interno che ora, rotta la crisalide, riesca a farsi voce, corpo sonoro che non può più essere profanato dalle mani perverse dell’animale impazzito.

I tempi di scrittura e condivisione dell’opera sono stati accuratamente ponderati. Su di essi, così come sui moventi dell’esposizione del proprio vissuto, ci rende edotti l’autrice stessa, nella Lettera per tutti voi che suggella la raccolta: «Ho portato dentro di me questo segreto per tutta la vita. Ho iniziato a scriverne otto anni fa, dopo la morte di mia madre. Ma non ho mai pensato di far leggere a qualcuno questi scritti. […] Solo recentemente ho deciso di pubblicare Autobiografia del silenzio, per dar voce a tutti i bambini che, come la me di allora, non hanno la forza né il coraggio di parlare. […] Io non dissi niente ai miei genitori, perché provavo tanta, tanta vergogna, ma ho sbagliato […] Perciò voglio dire a tutti i bambini del mondo di non provare vergogna».

E la Marulli racconta ogni cosa, senza altro filtro che la leggera foschia che avvolge il passato. La sua poesia rappresenta ciò che non può essere rappresentato, con l’andamento cadenzato di una pièce teatrale. I testi sono ordinati dalla Cinzia auctor in sezioni che si susseguono in rigoroso ordine logico e cronologico – Il prima, L’orco e la bambola, Il dopo, In fine – che scandiscono il ritmo di una descensio ad inferos imposta, dal cui imo abisso la Cinzia agens riemerge attraverso il lavacro lustrale dell’amore e del ritorno alla vita, alla purezza negata.

Nella prima sezione, sei prose delineano i contorni di un’infanzia idilliaca: luoghi del cuore, rituali familiari, libri, pastarelle e scarpette rosse. Un’età felice, dai tratti fiabeschi, in cui la bambola è viva ed è ancora in grado di sognare.

Nel componimento che apre la seconda sezione, è l’orco stesso ad accogliere, al pari di una dantesca porta infernale, la bambina ne l’etterno dolore, nel terrore senza scampo, imponendole, con un ossimoro potentissimo, di rinunciare alla propria innocenza: dammi la tua oscena verginità. La catabasi procede implacabile nei testi successivi, nei quali l’atmosfera fiabesca si dirada, lasciando dietro di sé le disiecta membra lessicali dell’infanzia, violentate e rideterminate semanticamente: principe, giro giro tondo, scarpette rosse, vestitino, caramelle… La bambola è ora un simulacro vuoto e cieco, con i capelli lucidi di nylon e la pelle gelata di paura. Attorno a lei, che si nasconde nel lettone grande, l’incolmabile solitudine della verità taciuta. I sogni hanno ceduto il passo al male, il male per sempre.

Il lungo e faticoso percorso di ascensio inizia nella terza sezione: l’ombra lunga del dolore lambisce ancora i primi componimenti, ma la tensione verso un orizzonte purificato ormai già traspare (dimmi tu – dimmi/ci sarà un giorno/il bianco velo della resurrezione?). Un passo dopo l’altro, la bambola ritorna viva: ama, benché dapprima con terrore; scava nel proprio animo e scrive; genera a sua volta la vita; accetta il male subito e il suo portato di dolore; perdona.

Il processo di elaborazione del trauma si è concluso. Il componimento unico che costituisce la quarta sezione ne sancisce il frutto – forgive and forget – in un verso lapidario: nel registro della memoria conserva solo il bene.

Autobiografia del silenzio è un’opera che non si attraversa indenni. È una lettura disarmante, la cui potenza è amplificata – in forma solo apparentemente paradossale ma in realtà perfettamente logico-consequenziale – dalla cifra ultima della parola poetica dell’autrice: la purezza, che massimamente traluce dal contatto con una materia corrotta, con la natura scabrosa dell’abominio narrato. Tale purezza è amplificata dalle misurate scelte stilistiche, segnatamente dalla sintassi piana e lineare e da una selezione lessicale pulita, essenziale, improntata a una semplicità espositiva che, lungi dall’essere ordinaria, potenzia la detonazione emotiva delle parole, colte nel grado zero della loro nudità primigenia (tra le occorrenze più frequenti: male, bene, paura dolore, oltre alle voci totemiche bambola e bambina). La poesia, del resto, «non è mai un modo più elevato della lingua quotidiana. Vero è piuttosto il contrario: che cioè il parlare quotidiano è una poesia come dimenticata e logorata»[6].

La poesia della Marulli è potente: catalizza l’attenzione, scuote animo e coscienza nelle fibre più intime e muove all’empatia, poiché non parla ai sentimenti, che investono i singoli soggetti-oggetti, bensì alle emozioni fondamentali, che investono un intero mondo. E al mondo l’autrice si rivolge – lettori, bambini, genitori, insegnanti – esortando alla vigilia, alla vigilanza attenta e cauta, perché gli orchi attendono nel bosco scuro e a volte hanno gli occhi azzurri di un principe.

 

 

Sono il mostro che ti prenderà

non puoi scappare bambina

non ci sono ripari nel bosco scuro

 

piangi le lacrime dell’innocenza

quella che non avrai più

 

dammi la tua oscena verginità.

 

*

 

C’è sempre quella bambola

con i capelli lucidi di nylon

e le gambette sporche di tempo

 

ha ancora le braccia aperte

in attesa di un abbraccio

e il viso macchiato di paura

 

con un buco nell’occhio destro

per non vedere l’uomo nero

 

e una piccola sfera celeste in quello sinistro

per guardarsi fuggire nel sereno della morte.

 

*

 

Con la penna in mano

scavare tra le costole

 

un violino urla

lo sconcerto del vuoto

 

il dolore è una cosa solida

quando afferra

sono le mani a lasciare la presa.

 

*

 


Cinzia Marulli

Cinzia Marulli è nata il 6 marzo 1965 a Roma dove vive e lavora. Organizza e coordina eventi e incontri culturali con la finalità di diffondere la poesia. È curatrice della collezione di quaderni di poesia “Le gemme” (Ed. Progetto Cultura) e della sezione di poesia ispano-americana della collana “Labirinti” (Ed. La Vita Felice) insieme al poeta cileno Mario Meléndez. Ha fondato e cura il blog letterario ParolaPoesia. Ha partecipato a vari festival internazionali di poesia in Italia e all’estero e le sue poesie sono state tradotte in arabo, cinese, francese, greco, inglese e spagnolo e pubblicate in Cina, Bolivia, Colombia, Ecuador, Honduras, Messico e altri Paesi. Nel 2021 è stato pubblicato in Spagna il suo libro di poesie El sentido blanco de las nubes per le Edizioni Valparaíso con traduzione di Emilio Coco. In collaborazione con il Gatestudio Records ha realizzato progetti di video arte. Nel 2014 ha vinto il Premio Prata alla cultura e nel 2016 la 1a edizione del Premio di Poesia “Casa Museo Alda Merini” con la silloge La casa delle fate.

 

 

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[1] Verso tratto dal testo poetico del 1802 My Heart Leaps Up, noto anche come The Rainbow, contenuto nella raccolta del 1807 Poems in Two Volumes.

[2] P. L. Assoun, Il bambino, padre dell’uomo. Figure freudiane dell’infantile, in Psicoterapia Psichoanalitica, Borla, anno XI, n.1, 2004 (trad. it. di L. Schiappoli).

[3] τραῦμα [-ατος, τό], «ferita»

[4] F. Barale, S. Uccelli (2001), Alle fonti delle concezioni psicodinamiche della psicosi, in Rivista di psicoanalisi, vol. XLVII, Borla, Roma.

[5] M. Heidegger, «…poeticamente abitare il mondo», in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano, 1985.

[6] M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, 1959 [trad. it. Di A. Caracciolo, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973]