Nota di Dario Cannalire su “Né acqua per le voci” di Marina Massenz.

     

Quando scopriamo il mondo, non solo come una scatola priva di corrispondenze, ma come un esercizio armoniosamente intenso: con i suoi abitanti, la natura e tutte le sue totalità primordiali e vitali.  Ogni singola parte di esso diventa la nostra casa, la nostra città, il nostro cielo, il nostro sole e dietro queste immagini, ecco che troviamo la parola di un poeta.

Marina Massenz in “Né acqua per le voci”, ci fa entrare strisciando, in questi scenari di concordanza con l’ambiente e disordine quotidiano. Lo fa guardinga, attraversando un selvatico malato con voce lenta e dissonante. Capace di provocarci sensi di colpa, ricordandoci quale davvero dovrebbe essere il nostro rapporto con la natura. Quanto scempio ne provochiamo e quanta cura invece, dovremmo averne.

Vita dentro e vita fuori, ferita quindi.” Il muro si agita si sbriciola /su di me tra i miei piedi /le mie dita di polvere sommerse.“  o  “Un bosco opaco, un paesaggio finito / in sé che riflette il tutto ma lascia /tracce ovunque.“ Si intrinseca e fluida nelle cose e nella corteccia.

Vita parallela fatta di doni e “simultanee visioni”o emozionante “ Stupore felice il mio essere / tra apparizioni di altri mondi “, che vuole riflettere un equilibrio.
Un paesaggio tutto da condividere quello della Massenz, un passaggio doveroso nel buon ricordo di Giorgio Caproni in Res Amissa: L’amore finisce dove finisce l’erba e l’acqua muore”.

   

Questa agendina cade in pezzi

Questa agendina cade in pezzi,
la devo riparare, devo
evitare di ricopiare tutti
i numeri meno il tuo.

Il telefono suona ma la casa
non risponde. Ancora libri aperti
portacenere colmi, albe e tramonti
tra risse di bicchieri sporchi.
Si direbbe che sei appena uscito.
Ancora sul tavolo della cucina
medicine e (appese al muro come un trofeo)
le tue “stroncature editoriali”,
di cui andavi amaramente fiero.

Ma la musica tace, nella casa
sempre più buia, e il telefono insiste.
Nemmeno pensare che è un caso,
se da un po’ non ci sentiamo.
La via si farà grigia e informe,
tutta calcinacci e buche. Ma il tram
passerà ancora, con il solito suo
sferragliare. Forse migliaia
di foglietti scritti a mano
svolazzeranno per la stanza,
muti uccelli smarriti che nessuno
nel tempo saprà ricollocare,
indicando loro l’aria, l’uscita.

Foglietti sospesi e vorticanti urti
e gorghi tra mille parole a confondersi
le une nelle altre, tra anni e vite e passioni
in un caotico un po’ sarcastico danzare
l’ecatombe di quella tesa scrittura del cuore
del pensiero solo tracce. L’inchiostro
non è indelebile, sfuma, mentre squilla
ancora il telefono la casa si annebbia
sparisce e poi, poco a poco, la via.

*

Corpo corteccia

Abbracciata stretta stretta
all’albero corpo corteccia
braccia alzate e poi lo scorrere
lento degli occhi alla cima.
Visioni più ampie si cercano
orizzonti invisibili da pianoterra
oltre lo spazio di ascisse e ordinate
sahel faggete foreste tristi tropici
e a nord enormissimo paesaggio.
E poi su oltre nubi e luminarie
notturne fino al rarefatto
atmosfera refrattaria oltre pulviscolo
occhi lanciati all’alto per poi
ributtarsi giù quasi un crollo
come toboga cade per arrestarsi
rasoterra tra radici e zolle
a osservare la minuscola perfezione
dell’insetto il lavorìo delle ganasce
spolpare erba tenuta con zampa
quasi mano incantamenti del basso.
E ancora risalire occhi rivoltati
lanciati verso la chioma
avvertire il flusso interno
sanguevita che si slancia e ristagna
e così via tobogando veleggio
senza appoggi funi corrimani
o legami né imbracature né cinture
in perfetta sospensione instabile
in moto ascensionale o discesa libera
avvertire il flusso interno il sanguevita
che saliscendi pure quello in vitalità
embricato al corpo corteccia
nell’oltremondo diffuso nell’alto espanso
agganciato in microanalisi ai misteri del basso.

*