Logos egeneto. Una nota critica di Giuseppe Martella a “La memoria del dolore” di Maria Laura Valente

 

Di fronte a una plaquette così esile come questa di Maria Laura Valente (“La memoria del dolore”, Edizioni Progetto Cultura, 2022), il lettore può anche rimanere perplesso, a meno di non aver avuto come me la ventura di ascoltare l’autrice dal vivo in un recente evento di “Versante Ripido” e di rimanere incuriosito dalla intima misura della sua prosodia e dalla congruenza coi temi trattati, al punto di indurlo ad acquistare il volumetto e poi leggerlo con la dovuta attenzione. Alla lettura risulta però comunque difficile afferrare tutti gli echi che il testo contiene, a meno di non possedere un orecchio assoluto e una conoscenza adeguata non solo della poesia d’amore italiana ed europea ma anche di quella giapponese che l’autrice ha assimilato al punto da modificare il luogo stesso da cui l’io poetico parla e scrive. Perché innanzitutto qui proprio si tratta di una composizione di luogo, sia nel senso dell’esercizio spirituale inteso da Sant’Ignazio di Loyola che in quello di una topologia del genere poetico, di cui si intravvedono qua e là i punti di catastrofe, le pieghe e le incrinature nell’orizzonte della ricezione. In altri termini, sorge la domanda sul “chi parla” e “di che cosa”. In primo luogo, certo, come suggerisce il titolo, della “memoria del dolore”, genitivo soggettivo e oggettivo, cioè anche del “dolore della memoria”, e proprio in questo palindromo virtuale si situa il problema del s/oggetto, dell’io barrato, diviso dall’interno, nell’atto della speculazione che pesca nel narcisismo originario della psiche, sia esso di vita o di morte. La cesura speculativa sta ovviamente alla base del processo anamnestico, che qui viene svolto però con un rigore logico e una accuratezza cerimoniale poco comuni. Tale cesura trova il suo equivalente formale nell’adozione dello haiku come “intervallo” spazio-temporale nella stesura del testo e nello sviluppo della genealogia del trauma ivi messa in scena, in una sorta di montaggio retrogrado di parti di una scenografia preterintenzionale e prescritta in luogo altro rispetto a quello di chi dice “io”. Insomma in sintonia col presupposto fondante di ogni surrealismo, per cui “Je est un autre” (Rimbaud). Ciò comporta anche una marcata spersonalizzazione dell’io poetico che si dissemina nei propri riflessi speculari e negli echi della tradizione, ricevuta ed eletta, della poesia metafisica inglese del Seicento (Donne, Marvell) che costituisce un altro importante referente della nostra autrice, nella sua personale declinazione della fruizione e della perdita dell’oggetto del desiderio, cioè della ferita originaria nel cuore dell’esserci che è il fondamento nullo di ogni sua rappresentazione. Questo vuoto, questa béance, costituiscono in effetti l’origine e la fine della quest circolare che qui viene attuata partendo da e arrivando al silenzio, rovesciando la memoria rimossa del trauma nel trauma finale della memoria, fra il silenzio complice dell’inizio e quello semplice ed entropico della fine in dissolvenza che inevitabilmente ci aspetta.

Si potrebbe infatti anche affermare che qui si tratta, più o meno scientemente, del dramma della iscrizione mnestica e della trascrizione chirografica dei traumi del disamore, ferite che si rapprendono in un reticolo di cicatrici che costituisce la mappa psichica del soggetto interdetto, quello che non può dire “io” senza con ciò diventare un altro, o quantomeno passare attraverso l’altro, nell’atto stesso della propria nominazione. Ciò viene messo impeccabilmente a tema nel nostro testo nella scena centrale della deposizione del Verbo, che assume anche connotati teologici oltre che metafisici: “se provo a farmi verbo da annotare / in chiosa al tuo distacco siderale / mi scopro deponente / paradigma difettivo / un congiuntivo / frustrazione d’ottativo / un conativo / aoristo debole e passivo / iterativo / asemantico ausiliare / irregolare / forse omesso o sottinteso / a ben guardare/ resto frase nominale”. (17) L’esito finale de questo tour de force della scrittura come traccia e supplemento del flatus vocis, è quello dello stallo nominale che prelude alla conclusiva ricognizione dell’impossibilità di dire l’origine del dolore, e con ciò anche al paradosso dell’atto poetico in quanto nominazione adamitica delle cose e istituzione del patto fra linguaggio e mondo.

Come si vede, a partire dalla esperienza del disamore, si perviene qui quasi inevitabilmente alla decostruzione della metafisica occidentale, basata come è noto sulla platonica anamnesi delle idee da parte della psiche reduce dalla sua ultima traumatica incarnazione[1]. La lirica d’amore costituisce infatti il nucleo tematico e tonale dell’intero discorso poetico, così come si è svolto in occidente a partire dal mito dell’origine del canto come elaborazione di lutto da parte di Orfeo per la perdita dell’immagine dell’amata sulla soglia del visibile (Aidés), cioè della sottrazione dei traumi all’oblio attraverso la parola poetica tramandata e tradita, e infine trascritta, cioè conservata ormai solo più come supplemento, traccia e farmaco per l’ineluttabile cesura che segna dall’interno il nostro dualismo di essere e coscienza. Cesura che nella nostra raccolta assume, come dicevamo, anche la forma concisa dello haiku giapponese, col suo taglio (kire) fonosintattico interno a segnare il confine tra il sé e l’altro, oltre che a scandire il battito diastolico-sistolico dell’intero componimento, come puntualmente osservato nella prefazione da Sonia Caporossi: “così vicino / il nostro egoconfine / così lontano”. (16)

L’innesto della lirica d’amore giapponese sul tronco di quella europea è qui infatti l’operazione precipua che vale a distinguere la scrittura di Valente, nel variegato panorama della lirica erotica italiana contemporanea. Ma bisogna osservare che dietro l’inserzione dello haiku con funzione di scansione macroritmica del testo, fa capolino tutta una gamma di adombramenti della tradizione femminile del waka giapponese dell’epoca Heian (794-1185), con particolare riferimento al genere del nikki, cioè alla diaristica epistolare, costellata di liriche d’amore, delle dame di corte, di cui la nostra autrice è particolarmente competente. Si veda a questo proposito l’haiku seguente: “l’intermittenza / dei nostri “sta scrivendo / profondo autunno”. (14) Ma non possiamo soffermarci più di tanto su tutte le tappe di questo circolare processo anamnestico, che si rapprende a tratti in una stenografia del dolore (23), per poi riprendere il disperato viaggio a ritroso nel “dedalo di strappi e cicatrici” della memoria, (29) in direzione di una irraggiungibile origine. Ci basta rimarcare la significativa simmetria fra l’esortazione iniziale a dar voce al dolore e la ricognizione finale della dissolvenza e del silenzio che l’attendono. Vale la pena dunque di citare per intero le due stazioni, iniziale e finale, di questa via crucis del ricordo che si rapprende nel paradosso della scrittura come supplemento e traccia di un’origine già sempre assente: “date parole alle lacrime / perché scavino il silenzio / e voltando la clessidra / sedimentino memorie / date forma e dimensione / ai singhiozzi soffocati / perché nulla più ferisce / di un dolore senza nome”. (9) E poi: “tutto ciò che in fondo resta alla fine d’ogni cosa / è la luce del silenzio che ricuce le ferite / non è dato prevedere la misura del dolore / questa mano non è ferma / non è saldo questo cuore / e la fede si frantuma al richiamo dell’errore / ciò che resta fino in fondo quando tutto il resto è niente / è l’odore dei ricordi crocifisso dentro i versi”. (31)

Giunti alla fine del percorso, si comprende per intero che questa agonia della memoria è anche e soprattutto una drammaturgia della scrittura, o meglio della trascrizione chirografica della traccia mnestica, fra micro e macrocosmo, parola e silenzio. Si tratta di uno squisito esercizio di decostruzione, ossia di spostamento dall’érgon verso il pàrergon, dal dictus al ductus, dell’intera tradizione della lirica d’amore europea, rafforzata dall’innesto di quella giapponese. Nonché da quella fusione di senso e sensazione, pensiero e sentimento, derivata dalla poesia elisabettiana e metafisica inglese, fra Cinque e Seicento, come dichiarato dalla citazione iniziale dal Macbeth in esergo.

Alla fine di questa vera e propria grammatologia in versi, appare in palinsesto l’ombra del Logos Egeneto, già sempre divenuto e tradito (sia esso quello di Eraclito o del Vangelo di Giovanni), il Verbo incarnato e abbandonato sulla croce del tempo, per supplire alla intrinseca carenza erotica del Padre-Amante (demone o dio), e portare la buona novella (euangélion) dentro la sacra scrittura. Così in una vertiginosa spirale escatologica, la scrittura d’amore supplisce all’innominabile ferita che l’ha generata, nella folgorante sinestesia finale, pronunciata sulla soglia del silenzio: “ciò che resta fino in fondo quando tutto il resto è niente / è l’odore dei ricordi crocifisso dentro i versi”. (31)

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[1] Platone, Repubblica, Fedro.