Risonanze di Massimo Parolini | La salmodia residuale di Fabrizio Bregoli

      

“Ed anche qui/ l’amore lo si è scritto, in privazione/ ipotesi che non si dà un prova./ Il nostro, un dimostralo per assurdo.” L’amore fra un padre e un figlio, la vita, la terra originaria, il Mistico, il Grund: ciò che diremmo fondamento, origine, essenza, si sottrae, si dà, heideggerianamente, nell’atto della privazione, dell’assenza, del differire: partendo da versi conclusivi (e inclusivi di senso) introduciamo qualche nota di rizoma interpretativo alla bellissima silloge Notizie da Patmos (La Vita Felice, pag. 90, 2019) di Fabrizio Bregoli. Una raccolta poetica densa, coerente, nella quale il figlio pone al centro la tematizzazione dell’assenza paterna, figura ancestrale e analitica di cui l’autore conosce tutto, “stanandolo da sempre./ Senza, per questo, averlo mai trovato” (Lettera a un amico). Cinquanta poesie, dunque, per ritrovare, “Petit-Poucet rêveur”-pollicino sognante rimbaudiano, i frammenti di un pane amoroso mai spezzato assieme, in cerca di un varco, di un anello che non tiene, una rubedo alchemica che sia apocalisse di rivelazione, magari grazie alla cifra algebrica e alle leggi della fisica, nella traccia di un senso differito, metafisico, terra di confine, inospitale ma necessaria, arida ma fertile. Il tutto pensabile e dicibile grazie alla poesia, fiamma e “pietà del fuoco”, “parola scorticata, tutta detriti” che racconta un balbettìo di deriva e naufragio, “il nudo di ogni lingua, la sua resa oscena”, consapevole (fra le critiche di chi crederà troppo brevi questi versi, dicendo che “parlano e non dicono”) di scrivere “per non dire, cabotare/ il bianco della resa” (Vocabolario minimo). La parola poetica non rende il mondo, lo elude ed elide, vela più che svelare,  “lì dove fa deriva la parola” (Senza peso), è “Esilio” (ibid.), “soldo bucato/ l’ovvio scrivere ciò che non sai dire” (Quarto comandamento (ripresa) ), è un onorare “Il nulla/ il solo che ci è dato” (ibid.); una poesia che si nutre di “parole con tutto il peso del silenzio” (Problemi relativistici), di una “rima/ che fa acqua a dire tutta/ intera la ferita” (Rimari), che  “non cambia nulla/ è il nulla che la cambia. La fa possibile” (Notizie da Patmos): “In fondo non è proprio quest’ottuso/ dialogo col silenzio, la poesia?” (Somiglianze). Essa è un atto di resa, “scienza bellicosa del disarmo” (Comuni divergenze) che spara “a salve/ per non fallire un colpo” (ibid.); “affiora” dal compostaggio della vita (Istruzioni alchemiche per il compostaggio),  è  “chirurgo inerme” (Controcanto delle bottinatrici) “perché il silenzio è denso, immedicabile (Preghiera da una fine) e la parola poetica è arco plasmato dal silenzio, dall’altrove: il poeta si sente “geniere/ a costruire sul poco che tiene/ un noi ancora indecifrato” (Complementi di tempo). “Si scrive sempre la poesia di un altro” (Alias), dell’Altro, che si sottrae, della heidegerriana Terra-Erde che non fonda ma è ab-grund, assenza e silenzio da s-fondare nella sua sottrazione che rende possibile il Mondo-Welt, ogni apparire e ricerca di senso: è necessario “Sovvertire gli assiomi, curvare/ e avvicinare i mondi: in fondo, a questo/ serve la poesia, quella sua elementare/ geometria ellittica, / a conferire campo e gravità/ alla parola, attrarla al suo silenzio […] per rendere l’assurdo praticabile” (Rimedi non euclidei). Il linguaggio scientifico si innesta in quello lirico per disbrogliare il filo, ma è una contraddizione di cui furono consapevoli anche i futuristi (cfr. Manifesto tecnico letteratura futurista): all’io lirico va sostituita la materia colta a colpi di intuizione eppure questo solo il poeta (e non lo scienziato) lo può fare.  La quantità conoscibile si fa comunque metafora per tentare di comprendere l’essenza-qualità (il poeta vuole ancora la sua funzione, pur barcollante, di veggente, non la delega allo scienziato). Nella sua prefazione Piero Marelli ricorda al lettore che trovasse ostico il linguaggio spesso scientifico di Bregoli che “c’è una intera parte della ricerca poetica contemporanea che ha chiesto alle parole della scienza possibilità di rinnovamento della poesia stessa” e che “il genere poetico ha subito, nella contemporaneità, diversi attacchi e aggiustamenti, e oltre le categorie crociane, la modernità ha stabilito anche il desiderio e il bisogno di interrompere tutta una tradizione fondamentalmente petrarchesca”. Una conoscenza accurata della tradizione letteraria italiana dal medioevo al Novecento, attenta anche ai generi minori e non solo a quella dei “poeti laureati che si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati”, ci ricorda che a partire da tutta la tradizione della poesia comico-realistica, da Rustico Filippi in poi, ma anche dal Dante plurilinguista della Divina Commedia, si è fatto ampio uso di un lessico “non lirico” che attinge a suoni aspri, a un lessico crudo e secco, tecnico e specifico, poco lirico e poco dolce stilnovista e petrarchesco. Questa tradizione procede poi in tanta poesia “alta” scritta però in volgari diversi dal fiorentino illustre. Inoltre abbiamo la stravaganza del secolo barocco: al culto del bello si affianca una lirica, non comica, ma realistica, che poeta su tutto: sulle zanzare e gli altri insetti, sugli strumenti tecnici del secolo (come l’occhialino-microscopio di Lubrano), sui pidocchi di una donna che si spulcia. E parole come atomo, cristallina lente, ordigno, ottica, ente dominano nei sonetti del Seicento.

Fabrizio Bregoli

Bregoli scrive che ha “sempre avuto il tarlo delle scienze esatte”: attraverso la cabala, l’alchimia e la scienza sente il bisogno di dominare l’alterità, la Terra che si sottrae, il silenzio della privazione: il suo desiderio è di studiare l’amore attraverso la stechiometria (elemento e misura), branca della chimica che studia i rapporto quantitativi-ponderali delle sostanze chimiche nelle reazioni chimiche determinando matematicamente, col calcolo stechiometrico,  le quantità di reagenti e prodotti coinvolti in una reazione chimica (Il reagente è ciò che si consuma, nella reazione chimica, il prodotto ciò che di nuovo si forma a partire dalla modifica dei legami degli atomi dei reagenti).  E poi “grammatica, calcolo differenziale, logica formale. E l’algebra. Soprattutto l’algebra”. L’autore sembra confessare, in apertura, la sua fede come inizio del percorso di conoscenza del mondo in modo preciso, perfetto, chiuso, come in un racconto, lasciando intravedere, al termine dei componimenti, come il viaggio (nelle relazioni, nell’amore, nella vita) abbia poi ridimensionato tale tarlo (antropologico, emblema dell’uomo occidentale che ha nell’ansia dell’ Ulisse il suo simbolo): come un novello Candido scientista, convinto che il mondo delle scienze esatte sia il leibniziano migliore dei mondi possibili, Bregoli, cacciato da tale fede per una colpa originaria inespressa, attraversa le peripezie e le mille avventure per ritrovarsi, come il suo antesignano volteriano, a pranzare alla mensa della filosofia dell’orto (“I pomodori, quel nostro orto minimo/ georgica di un credo elementare”, Il nostro spazio). Ma è un orto da codice binario, disposto ai lati dell’aiola, separato nel mezzo dal “solco cupo della terra […] frontiera brada/ inospitale/ erbe infestanti, un verde da scerpare” (ibid.). La divisione risulta il solo spazio (fra padre e figlio) e l’algebra assolve a questa funzione correttiva, a integrare una mancanza fra mondi isolati, divisi. Saldare il crepaccio, colmarne il gelo. L’algebra, unione-connessione-rimedio, come la poesia, è anello di congiunzione. Arte di riparazione. “Un’unione praticabile, per costruire universi misurabili. Docili. Uno spazio dominabile. Finalmente nostro. Una paternità restituita”, “Commensura di uno spazio interdetto” (Omeomerie), “Crederla riscrivibile una vita/ manipolabile come una formula”, Schrödinger, “E noi misura di una stessa terra”, Viso a viso, “direzione/ a una misura che si compie”, Sempre e solo un’ipotesi. Ma è una scienza (esatta) che si nutre anche, novello Leonardo umanista, di cabala e alchimia (“Ambivi a un tuo sapere enciclopedico […] Le piante, gli animali, i minerali”, Regni) del retaggio della magia dei numeri, il cinquanta e il sette in primis (“Sette paia di scarpe […]  sette verghe di ferro […]  Cinquanta semi  […]  Cinquanta litanie pagane […]  e nessuna in meno: il numero esatto/ per scrivere quanto quest’arte pesa”, “Cinquanta è anche, nella fisica delle particelle, numero magico, sa dare stabilità ai nuclei”). Riecheggiano le parole di Farinata a Dante, fra gli eretici, che profetizza l’esilio: è l’esilio di Telemaco (“abusivo”) che attende il ritorno del padre Ulisse, abile impagliatore di voli che non fa ritorno nello spazio dell’affetto, coltivando il proprio orto di vita separatamente dal figlio. Del padre restano la negazione dello sguardo, le mani non strette, la testimonianza di un “teorema sbagliato” (Quarto comandamento): e in questa “cecità/ di sguardi […] rimane/ ciò che non è stato” (ibid.). Anche il figlio, con l’arte della poesia, si definisce tassidermista, uomo cresciuto che preserva “il senso di due vite che v’accaddero,/ le loro labbra impagliate” che non seppero dire “noi” (Impagliatori d’aquile). La sua è una “rivolta mite,/ l’espatrio necessario dall’origine” (Sant’ Elena), per ritrovare un padre che non torna, che ha “la passione dei confini” e si affida alle cartine (Geografia di confine), ma resta imbrigliato nelle terre che le carte non riportano, fra gli incantesimi, le caverne, la bellezza rasserenante e i frutti dell’oblìo.

Il poeta desiderava uno spazio misurabile e, in prospettiva, dominabile: come il kafkiano agrimensore K. intraprende un viaggio verso il Castello del Padre: ma lo spazio che si trova a percorrere è quello dell’erranza e dell’errore, si fa spazio invisibile, si sottrae alla vista e alla comprensione, la distanza dal Padre sfugge ad ogni calcolo; egli vorrebbe, in linea con il soggettivismo moderno da Cartesio in poi, sostituire la verità col certo, comprensibile in quanto misurabile, calcolabile. Il suo percorso esperienziale lo farà approdare ad un altro metro, col quale misurare le distanze: il metro della poesia che segue la traccia della differenza, della fuga -irreparabile- degli dei, consapevole, con Hölderlin che dei-padri (fuggiti) e mortali-figli (rimasti e in ricerca) “stanno come lungo l’abisso/ l’uno a fianco dell’altro” (Hölderlin, L’unico, da Inni e frammenti). Il figlio vive nella traccia del padre ormai fuggito, nello spazio condiviso in uno Zwischen (un “fra”) che è “frontiera brada, inospitale/ erbe infestanti […] esilio necessario” (Il nostro spazio).

Resta, tuttavia, la lucentezza dell’impronta residua, l’ombra sbiadita della sinopia del padre-del divino, che ha il volto della possibilità del bene: “l’equinozio/ di una luce ingenerata” (Omeomerie), “La luce, e quel suo tarlo […] sul confine/ di una luce totale” (Problemi relativistici), “L’imbroglio è sempre la luce” (Heisemberg) “Soccorrono certi incidenti minimi, / la tregua di una luce” (Illusioni ottiche), “il retaggio della luce” (Preghiera di una fine). Luce precaria e residuale che in certe poesie della ricca raccolta prende la forma della possibilità del perdono: “Quella dove -lì soltanto-sillaba il perdono”, “La regione/ di un perdono possibile” (Schrödinger), “Ci sarà un rifugio buono, la luce/ residua […] Ci sarà:/ lo deve” (Viso a viso).