La camera era rossa di Claudia Zironi (Industria&letteratura, 2024), recensione di Luigi Paraboschi
Henri Matisse ha dipinto “La stanza rossa” nel 1908, quando la sua ricerca artistica approdò a una concezione di pittura come espressione di emozioni rese attraverso il colore. La copertina del libro di Zironi è quasi la stessa di quella Stanza rossa di Matisse anche se i soggetti che vi sono ritratti sono differenti; nel quadro c’è una donna vista di profilo in una stanza dalle pareti rosse damascate e sul fondo una finestra aperta che dà su un giardino, nel libro c’è in primo piano lo scorcio di un divano capitonné in pelle e sulla parete una foto del “Che” Guevara diventata un’icona.
Se Matisse ha voluto parlare con il colore, Zironi ha scelto questo rosso definendolo “rosso acceso, iroso, senza nome, un rosso sesso, un rosso arterioso” perché ha forse voluto fornire al lettore una inquadratura per la lettura e la interpretazione della sua opera attraverso uno sguardo completo della sua esistenza, dall’ adolescenza fino ai giorni nostri, ove il colore rosso è da sempre appartenuto a una ideologia schierata politicamente.
Negli anni ho avuto modo di leggere quasi tutte le opere di questa autrice e in ognuna di esse erano esaminati i singoli problemi che investivano la sua vita, dall’amore al lavoro, dalla politica agli incontri, dal peso della ripetizione dei gesti nel lavoro alienante, al sistema che stritola gli individui. Questo ultimo libro mi sembra la summa del suo pensiero che principalmente è sempre stato caratterizzato dalla meditazione sul passare della vita umana.
In “Variazioni sul tema del tempo”, suo lavoro di qualche anno fa scriveva
“E se un giorno svanissero/ i pensieri la luce non esistesse più/ la percezione/ dello spazio né quella del freddo, non ci fossero/ più nervi ad accogliere il dolore/ nessuna voglia nel ventre, un grande/ silenzio./ Il tempo/ fosse una macina per ossa./ Se un giorno restasse solo questa sensazione/ di non servire a niente.”
Nel libro successivo dal titolo “Not bad”, trovavamo
“…non ci sarà giudizio né rinascita, le pietre/ non ricorderanno una parola di Albanese né un solo verso di Dante/ di Montale, di De Angelis o di Arminio Franco, chi ha abitato/ la laguna e l’Amazzonia, chi ha comprato l’ultimo esemplare di Ferrari./ poi anche i vermi si estingueranno e tutto tornerà alla perfezione.”
Ora il suo cammino, anzi, il suo viaggio esistenziale, prende avvio proprio dall’interno di quella camera, ove, per non smentire il significato di quel colore: “…si apriva solo per uscire o per gli amici […] poi qualcuno diceva di Marx, che il Capitale… canne non di rado […] un poco di libertà si respirava nell’aria, un poco di futuro perfino, un poco di lotta, ancora.”
Riusciamo così ad inquadrare la sua formazione iniziale di giovane “il corpo che cresceva era un percepito appena, lontano come la vecchiaia” e più avanti “un tempo era facile rompere le vetrine i sampietrini si trovavano a terra […] ora raccogliamo i sassi di fiume e scagliamoceli addosso”
Come ogni giovane degli anni ‘70 l’autrice compiva viaggi di vacanza, e ora parla delle esperienze attraversate utilizzando riferimenti culturali tipici di quel periodo, ad esempio per il viaggio a Parigi si serve della scorta dei fotogrammi di famosi registi cinematografici, Bresson, Godard e Truffaut, e anche di immagini ispirate da riferimenti del mondo della fotografia come il famoso bacio all’uscita del metrò scattato da Doisneau.
Sopravviene la crescita, si diventa adulti “con il peso insostenibile del vivere”, quando “il lavoro era ancora sottesa aspettativa di miglioramento economico e sociale, occasione di affermazione individuale, acquisizione di dignità civile” ma qualcosa è cambiato attorno a noi “Prima di sentire di aver sprecato tutto quanto poteva essere, quando i sogni non erano finiti, prima di aver la sensazione di non poter più cambiare rotta” e purtroppo la conclusione, amara, le fa scrivere “prima di iniziare a contare all’incontrario: non più di quanto ho vissuto dalla nascita ma quando ancora posso durare prima di morire.”
Agli incontri con l’altro sesso, brevi o lunghi che siano stati fa accenni allusivi che appaiono qua e là. Troviamo qualcosa in un verso a pag.20 dove scrive a Jan “quando non potevamo immaginare che ci saremmo lasciati”. Ma forse la maggior delusione registrata in un rapporto a due si rileva a pag.23 ove scrive “sei una costante indifferente, una nudità perduta, una regola tramandata e disattesa… so che c’eri nel nostro rosso passato di dracene” e c’è nella chiusura della stessa poesia – ove una sola virgola collocata al posto giusto ci fornisce l’idea di una storia passata e ancora amareggiante – “Per te nessun amore, mio.”
Nel viaggio generazionale di Zironi, si passa poi dagli affetti alle esperienze altrui che sembrano colpire in modo particolare proprio le nate nei suoi stessi anni, con una sezione del libro in cui dà voce a una donna morta, uccisa dal suo compagno durante una vacanza al mare che sembra essersi svolta all’insegna del massimo incontro tra amore e piacere, ma che si chiude con una cesura folgorante che dice “Dalla scogliera la spuma tua come quella dell’onda mi restituiva al mare./ Poi mi colpisti. E fu terra.”
La sezione si chiude con un’invocazione che è speranza per tutte le donne o forse fiducia nell’aldilà “saremo ancora felici quando tutto questo finirà e torneremo giovani. Davvero, credimi, saremo di nuovo libere. Potremo toccarci le mani e sul viso non avremo segni. Partiremo. Saremo felici di non avere nulla.”
Ma il tema principale del libro è l’angoscia del tempo che inevitabilmente sfugge dalle mani di una generazione che non ha saputo cambiare il sistema sociale e fornire all’umanità strumenti adeguati a preservarla dalla rovina: “solo la povertà è ricorrente, è ricorrente, è ricorrente…” L’operazione di appiattimento culturale opera in noi una sorta di omologazione verso la quale non opponiamo difesa ”alla fine, per non essere -uncorrect/ non pensi più a nulla, guardi Youporn e ti senti in colpa se l’ occhio ti cade su un culo vero, ti omologhi […] e sorridi alla Nato che ti fa stare tranquillo, non arrivi a fine mese e dai il voto ai fascisti./ Giudichi male questo scritto.” (pag.43)
I testi si fanno sempre più ricchi di amarezza, disillusione, sarcasmo e a pag,44 troviamo “Intanto, che la gente si abitui pian piano a morire, non alla bella morte scritta alla nascita nel sangue: che si abitui alla morte antieroica e inutile, al sacrificio, alla propria sostituibilità, alla legge del più forte. Che si predisponga un modulo, una liberatoria, un lasciapassare per la fossa, un po’ complesso da capire, per dare maggior valore al gesto della firma. Che si spieghi alla gente perché è utile morire: per la foto pubblicitaria della natura incontaminata delle Maldive, per le future generazioni di giovani manager e per i SUV delle future generazioni di manager, per preservare il Nostro tenore di vita. […] Fatelo per gradi, pian piano, abituandoli, verrà poi loro naturale, morire.”
Tutto, attorno a noi, si sta sgretolando dice Zironi, e reitera in ogni verso della prosa poetica di pag.49 il verbo “ci consuma”: “è impossibile vederlo, quello che ci consuma. […] È orribile venire consumati. Incurvarsi. Farsi lenti, perdere la memoria e i denti. Ma lui non smette – mai – e ci consuma. Il mostro ci consuma […] non c’è uscita. Non c’è un luogo diverso dove andare. Manca poco, ormai- vi prego – aiutatemi.”
L’andamento, pagina dopo pagina, è uno scivolare continuo verso la fine, la catastrofe dell’umanità. Se continuassi nell’analisi dei testi non troverei che disfacimento, e converrei con l’autrice che scrive a pag.52 “forse i portoni dell’inferno si sono aperti”.
Bene, dico io, tutto si sta avverando se si pensa a Gaza, all’Ucraina e alle altre guerre, ma so che Zironi è troppo intelligente per avvolgersi su sé stessa solamente dentro questa spirale disastrosa, so che lei possiede le difese per la sopravvivenza, che sono l’amore per la diffusione della cultura, l’ impegno per diffondere la poesia a tanti livelli di incontro e discussioni letterarie, musicali, e amicali con le persone che condividono con lei le stesse passioni perciò mi sento abbastanza tranquillo che la depressione, l’angoscia, la paura del vivere saranno sconfitte malgrado le avversità del mondo attuale.
Termino con una annotazione stilistica: questo lavoro rappresenta un grande salto in avanti di Zironi nella sua scrittura che ha perso le assonanze, i suoni tra le parole, la cura nelle strofe ed è approdata a una cifra dura, senza ricercatezze, ma ricca di significati e di sfumature che disperdono subito la prima impressione di una poesia solo narrativa, assumendo invece uno stile unico e di grosso impatto sul lettore.
02/06/2024 alle 08:50
A volte c’e` bisogno di pensiero positivo, che ci fa vedere solo il bello di ogni immagine, altre volte c’e` bisogno di poesia, che ci restituisce l’immagine completa anche del brutto, rendendo pero` bella tale descrizione; la percezione di bello e brutto influenzano il nostro umore: in quale delle due modalita` ci riconosciamo piu` volentieri? Ed e` l’umore la funzionalita` piu` importante per la nostra identificazione?
02/06/2024 alle 12:28
Grazie per il tuo passaggio Piero e per questo spunto di lettura ulteriore che fornisci. Un caro saluto. Claudia
02/06/2024 alle 12:34
Ringrazio di cuore Luigi Paraboschi, da sempre attento alla mia poesia, per questa approfondita lettura.
02/06/2024 alle 17:16
e io, ringrazio te, Claudia, per aver accettato la mia lettura e spero che le mie parole diffondano ancora meglio la tua scrittura da sempre così viva e attenta al ” vivere “, Ciao
03/06/2024 alle 09:57
un caro abbraccio Luigi