Una corda di basso. Intervista a Anna Maria Curci a cura di Patrizia Sardisco.

    

Ho salutato l’invito di Versante Ripido a proporre un’intervista a un poeta da me amato e per me particolarmente significativo con la stessa gioia con cui si saluta la fioritura inattesa di una pianta, quando si comprende di colpo che il fiorire è un in fieri di vita che, non vista, tuttavia a lungo doveva aver premuto, ancorché inavvertita, ancorché muta: il mio dialogo silenzioso e insistente con la poesia di Anna Maria Curci, la mia riflessione dilatata sui suoi versi, sulla sua poetica e sulla Weltanschauung che attraverso essa  si esprime, poteva finalmente assumere una veste condivisa e offrire anche ad altri l’opportunità di conoscere più da presso e approfondire una delle voci più originali, colte e stimolanti in cui abbia avuto la fortuna di imbattermi.

Poeta, critico letterario, traduttrice: Anna Maria Curci è nata a Roma, dove insegna lingua e letteratura tedesca ed a tutti è noto il suo lavoro inesausto e generoso al servizio della diffusione della poesia, dalle pagine di Poetarum Silva, di cui è redattore capo insieme a Fabio Michieli, e da quelle di numerosi altri blog e riviste cartacee.

     

Vorrei  ringraziarti per aver accettato di rispondere alla mie domande, cara Anna Maria, e prendere le mosse dal tuo ultimo libro, da “Nuove nomenclature e altre poesie”, edito da L’arcolaio, con prefazione a cura di Plinio Perilli, nel quale, nella sezione eponima ma non solo, il codice contemporaneo viene rifratto dalla lente colta, ironica e pungente della tua poesia per smontarne e smascherarne, dietro il belletto del nuovo o di ciò che è salutato come tale, le sempiterne ipocrisie, le contraddizioni e il grottesco di tante, troppe adesioni superficiali: “Non diffido di parole oriunde/fiuto il lercio di feticci verbali” recita, per esempio, uno dei Dodici distici del disincanto. La lingua, le lingue, occupano un posto di rilievo tra le tue “ossessioni” intellettuali, sei traduttrice, germanista, ti occupi di educazione plurilingue e da diverso tempo ormai ti prendi cura anche della poesia neodialettale: quanto nel profondo giunge la narrazione di una società attraverso lo studio delle parole con cui nomina i propri oggetti? A quale tua urgenza risponde il farne anche oggetto di poesia?

La lingua o, per essere più precisi, le lingue (giacché il plurilinguismo esterno e interno, è, a dispetto delle azioni prepotenti di riduzione, di negazione, di deprivazione, di soppressione, dato costante nella condizione umana) non sono soltanto, in quanto via privilegiata di comunicazione e di espressione, rivelatrici dell’individuo, ma vere e proprie spie di processi collettivi nel loro mutare, nel loro evolversi, nel loro impoverirsi drammaticamente, nel loro manipolare interi registri o singoli lemmi. Filologi e linguisti sono stati e sono in tal senso lucidissimi profeti, ancorché inascoltati. Se fu un filologo romanzo, Erich Auerbach, a intuire, già nel 1952, la possibile progressiva perdita del senso storico-prospettico della vicenda umana, è dalla linguistica cognitiva di George Lakoff che da alcuni anni e ancora oggi – penso alla riedizione, in questo anno 2019, della sua opera del 2004, Non pensare all’elefante! Come riprendersi il discorso politico – ci giunge un segnale di allarme circa i meccanismi di falsificazione attraverso enunciati, lemmi e slogan nell’era del passaggio dalla ideologia alla “idiolatria”. È un’epoca caratterizzata da quel fenomeno che Lakoff definisce della “ipocognizione”: dietro le parole non ci sono frame di riferimento. L’ideologia viene caricata di accezioni negative, il primato del privato viene opposto alla cornice di riferimento comune, alla dimensione pubblica, alla politica. Si spaccia per solo autentico il “linguaggio della gente” e ci si guarda bene – gli imbonitori pre-potenti sono navigati manovratori in tal senso, «charcutier di  rigaglie manovrate» – dallo scoprirne l’origine in paure e bisogni creati ad arte. È proprio nel contesto qui disegnato (davvero Brutti tempi per la lirica, per dirla con le parole di Bertolt Brecht) che l’attenzione agli “strumenti umani” incarnati nelle parole, nelle frasi, nei discorsi, insieme a quel rigore nel loro uso e nella loro disamina che il compianto poeta e traduttore, l’amico Roberto Rossi Testa chiamava La notte della veglia, devono accompagnare chi, nel poiein, confida nella parola come incontro, come connubio variamente declinato, ma non ‘mutilabile’, tra estetica ed etica.

     

Dall’altro versante, quale ritieni che sia oggi, se vi è, il ruolo che la poesia può giocare nei confronti della lingua? Oppure potremmo rubricare questo come un altro “vecchio desiderio” preso a schiaffi dal principio di realtà, per prendere a prestito dai tuoi versi un’immagine particolarmente felice?

Il «vecchio desiderio», l’anelito, la Sehnsucht, la «sete insondabile e perenne», nonostante gli schiaffi assestati dal principio di realtà, non rinuncia all’itinerario in vista della meta, quella sintetizzata dallo scrittore illuminista Lessing in Controreplica (la ricerca della verità è propria della dimensione umana) e da Ingeborg Bachmann nell’enunciato “Wir müssen wahre Sätze finden”, “Dobbiamo trovare frasi vere”. Si tratta di un itinerario che prende in carico il rischio di ammutinamenti, di silenzi, il rischio di essere sballottati, perfino squartati dalle parole, come ricorda Erich Fried in Dispositivi. Guardia alta e rigore non comportano un rischio più lieve, la tensione verso l’alto non è disgiunta dallo sguardo sull’orrido dal quale si può essere inghiottiti. Tuttavia, è proprio dal moto «nonostante il rovello», dalla “poetica del dissenso”, dal discernimento tra parresia e paccottiglia, che la poesia illumina nuove angolature e accezioni, costruisce senso, restituisce alla lingua la sua dimensione “storico-prospettica” pur nella peculiarità e nella irripetibile originalità delle sue singole manifestazioni.

     

Cosa ti affascina maggiormente della lingua tedesca, della cui letteratura ci regali inesauribile scoperta grazie alle tue preziose traduzioni? Quali influenze ritieni abbia esercitato sul tuo sguardo e sulla tua voce poetica l’amorosa frequentazione dell’universo letterario e culturale germanico?

La mia voce poetica ha cominciato ad articolare i primi suoni proprio in lingua tedesca. Quando,  oramai un quarto di secolo fa, alla lettura che mi accompagna da sempre si è affiancata la scrittura in versi, questi sono stati in lingua tedesca. Erano versi che appuntavo su un quadernino giallo insieme a lunghe citazioni dalle Lezioni francofortesi di Heinrich Böll. In quelle lezioni di poetica, così come nel suo discorso per il conferimento del premio Nobel per la letteratura (discorso che in parte ho tradotto e al quale torno spesso come si torna a una fonte inesauribile), Böll individuava le direttrici principali per riflessioni e considerazioni sul poiein, sul ruolo di chi si fa creatore, interprete e mediatore della parola, sulla poesia come ricerca e riconoscimento di una nuova Heimat(con la restituzione di nuovo senso a quel termine che il dodicennio nazista aveva manipolato e ‘segnato’), della parola poetica come suolo natio e dimora per eccellenza. Nei miei primi versi, in una lingua che a casa ero l’unica a conoscere e che è la lingua della mia professione, provavo a costruirmi una mia piccola dimora. È quasi un riflesso condizionato, forse banale, il ricorso alla “stanza per sé” di cui scrisse Virginia Woolf, tuttavia dalla prima ingenua condensazione del pensiero in questo angolo privato, la voce ha ben presto desiderato anche la comunicazione, e questa non poteva che avvenire nella lingua dei miei genitori, nella lingua dei miei studi, nella lingua nella quale avvengono gli scambi quotidiani e nella quale, prevalentemente in prima battuta, si manifestano vicende umane, fenomeni, rappresentazioni, visioni: l’italiano. L’amore per la lingua tedesca, che è per me, al contempo, lingua del pane e lingua d’elezione, resta indissolubilmente legato alla scelta di un ambito di studio e di cura, di insegnamento, è bene sottolinearlo, del “tedesco inconcerto con le altre lingue”. Professione, dunque, come atto di fede, di fiducia nella parola nelle sue molteplici dimensioni e manifestazioni. Le voci delle autrici e degli autori da me tradotti sono state e sono una lezione quotidiana di poetica della veglia, del rigore e del dissenso, in particolare con la rubrica “Gli anni meravigliosi”, ideata e curata per il lit-blog collettivo “Poetarum Silva”. Lì ho raccolto le voci dalla poesia degli anni Settanta in lingua tedesca e non poche tra queste voci, vittime di un duplice sopruso – tacitate in quegli anni come voci del dissenso, dimenticate oggi, perché provenienti dalle ‘parti sbagliate dei muri’: la vicenda di Horst Bienek, scelto da Brecht come allievo, poi arrestato e condannato a venti anni di lavori forzati, deportato nel campo di Workuta, è in tal senso dolorosamente esemplare –  chiedono e meritano di essere riproposte alla conoscenza.

      

Quanto è importante, per chi ne scrive, tradurre poesia? Antonella Anedda, per esempio, nell’affermare che per lei si tratta di una attività fondamentale, la indicava come “esercizio etico”. Tu che ne pensi?

Tradurre è senza dubbio alcuno un esercizio etico, come afferma Antonella Anedda, e, con le parole di Antoine Berman, “nella sua essenza plurale, etica dell’ascolto”. Lo sforzo che si concretizza nella dialettica, affascinante e perigliosa, di resa e azzardo, è l’impegno di chi, sapendo del rischio, prende in carico il ruolo di mediatore, di tramite tra due sponde, tra due versanti che altrimenti non saprebbero comunicare. È uno slancio oltre il sé e verso l’altro da sé. C’è tuttavia un aspetto che mi preme mettere in evidenza nella traduzione di poesie. Si tratta, ancora una volta, di un esercizio, etico sì, ma non solo: è esercizio rivolto alla cura del sé, e dell’universo di parole nel sé, in vista del dono dell’accessibilità da approntare per gli altri. La traduzione è per me un esercizio spirituale, una quotidiana pratica devozionale.  In una delle quartine dell’opera inedita Nei giorni, per versi, nella quale raccolgo il diario in endecasillabi degli anni trascorsi a partire dal 2014, ho dato voce alla mescolanza di entusiasmo e timore, al bisogno profondo e all’ineludibilità di un ‘concorso di colpa’ nell’esecuzione di tale esercizio: «Devozionale è la tua traduzione/ che vai limando con le guance accese./ Lo so: cerchi rifugio dall’orrore,/ ma l’imboscata, quella, sa aspettare».

      

Per tornare alle “Nuove nomenclature”, una delle sezioni del libro ha per titolo Staffetta. Quale testimone raccoglie la poesia? E quale quello della tua in particolare?

Il termine “staffetta” racchiude in sé e, di conseguenza, schiude diverse accezioni importanti per la poesia in generale, fondamentali per quella che chiamo ‘scrittura in proprio’: testimonianza da raccogliere e continuare a far circolare, anche a costo di grandi rischi; partecipazione condivisa a una corsa verso un obiettivo comune; contributo, anch’esso rischioso e itinerante, a un’azione di resistenza. Propri di tutte le accezioni del termine “staffetta” – e questo rappresenta ai miei occhi il quiddel testimone – sono due elementi: l’impegno, che comporta coinvolgimento completo e assunzione di responsabilità, e il dinamismo, il carattere viandante della poesia, che in questo si avvicina alla celebre definizione che Friedrich Schlegel coniò per la poesia romantica: “progressive Universalpoesie”, “poesia universale progressiva”.

     

Nella tua poesia, rigore formale e temi sembrano quasi implicarsi e sorvegliarsi l’un l’altro , “e la forma conclusa ti conforta/anestetizza il balzo o il suo pensiero/lenisce le ferite ancora in nuce”: la forma funziona dunque da antidoto a quella sorta di acting out poetico costituito da automatismi inconsci, impulsività e, in genere, da quelle modalità espressive in cui sembra che più che possedere la parola poetica se ne venga come “posseduti”? In effetti i tuoi versi esibiscono una raffinata ricerca di razionalità coniugata all’urgenza di prendere parola: come si risolve la tensione tra forma e libertà?

Ritengo che le istanze drammatiche e quelle speculative abbiano il diritto di pretendere il loro spazio all’interno della poesia, come due dimensioni non sacrificabili dell’umano. La dialettica tra queste due istanze diventa non di rado tenzone e può capitare che l’una prenda il sopravvento sull’altra. Può capitare, altresì, che nella stessa voce poetica le dimensioni si alternino, in opere e in fasi della produzione poetica,  nella presa di parola. Penso a tutta l’opera di Friedrich Schiller, dagli scoppi ribelli dei Masnadieri ai grandi drammi storici, passando per le meravigliose Poesie filosofiche e per i saggi  di estetica, pietra miliare e riferimento attuale. Poc’anzi sottolineavo il carattere dinamico e progressivo della poesia: ecco, non ritengo problematico che la tensione tra istanze opposte non si risolva mai di fatto. Tra forma e libertà, d’altro canto, vedo una dialettica di complessa armonia, caratterizzata dalla facoltà di scelta. Se, come scriveva Böll, la poesia è baluardo di libertà, questo baluardo si manifesta anche nella libera scelta della forma che canto e tessitura assumono, anche quando si opta per precise impalcature e regole,  anche quando si adotta una ‘gabbia metrica’ nella quale il pensiero poetico dispone la propria prospettiva. 

       

Un altro nodo che avverto cruciale, nella tua ricerca, credo che riguardi il rapporto tra Poesia e Verità che persegui anche a costo di dolorosi “sovvertimenti” di un sistema che ti guardi bene dal “confermare”, per usare le formule fortiniane che Plinio Perilli suggerisce nella sua Prefazione alle Nomenclature per dire della non resa della tua poesia “all’orribile e suadente poetichese imperante”. Ma di che natura è la verità cui la tua poesia “non sporge rinuncia” e quale il prezzo che si paga a voler suonare fuori dall’armonia, come il tuo Jaco Pastorius? “Pare facile, dici,/dispensare bellezza/ da una corda di basso./Ma il drappeggio è salato.”

Il basso, quello suonato da Tina Weymouth con i Talking Heads che compare in una poesia della precedente raccolta Inciampi e marcapiano, quello suonato da Jaco Pastorius con i Weather Report, che appare qui in Nuove nomenclature e altre poesie, è presenza corposa nella ‘sezione ritmica’ e nelle metafore della mia poesia, sa essere fondamento o contrasto, tappeto o dissonanza. Nella raccolta precedente la nota di basso «bizzarra e inattuale» apriva a una svolta, dall’esito aperto, ma comunque scaturita dall’insofferenza «all’istrione invasivo che altri alleva». Qui la bellezza dell’improvvisazione al basso ha un costo alto. Esito aperto, prezzo salato: il moto di ribellione, il non arrendersi alle melodie imperanti, rassicuranti e patinate – si pensi all’attacco «polite, poliert, ben agghindate» nella poesia Neomelodici, nella sezione Nuove nomenclature – comporta l’esperienza non indolore del distacco, del margine, dell’esclusione. È un’esperienza che può essere lacerante per chi anela all’armonia. Il canto corale, che pratico da tanti anni, è per me una forma di educazione di animo, orecchio e voce alla concordia, l’educazione a un “noi” che altrove è prevalentemente equivocato come conventicola, come gruppo di interessi. È a questo sistema, che genera artificiosamente una idiolatria  o un falso “noi” da contrapporre a un “loro”, ovvero al nemico creato per bassi scopi, che vale la pena di contrapporsi. Qui sta la verità della ricerca e la ricerca della verità: quale è il vero io e, soprattutto, il vero noi: per dirla con il verso finale di una delle ‘poesie della mia vita’, “Das Eigentum”, “La proprietà” di Volker Braun: «wann sage ich wieder mein und meine alle», ovvero «quando ridirò mio e intenderò ciascuno»?

     

Ricordo che in una sua intervista, Iosif Brodskij ebbe a dire che “Leggere poesia richiede uno sforzo, come qualsiasi altra cosa”. È un’affermazione che condividi? Il lettore contemporaneo è disposto a compiere questo sforzo? E, dal canto suo, ritieni che il poeta  debba preoccuparsi della pervietà della propria poesia? Penso, per esempio, alla tua scelta (da me peraltro convintamente condivisa) di utilizzare termini in tedesco di cui non fornisci traduzione; penso agli illuminanti, criptati calembour; penso alle numerose allusioni e citazioni, e a tutti i riferimenti extratestuali che, in modo manifesto o solo adombrato, pongono i tuoi versi in relazione con lo sterminato orizzonte culturale che il tuo occhio abbraccia, aumentandone densità ed esattezza anche a scapito, talora, dell’immediata trasparenza.

Della nascita dei primi versi in lingua tedesca ho narrato in precedenza; ancora oggi, tuttavia,  immagini, figure e voci si presentano sovente in quella lingua, sia perché legate a “parole del tempo”, che condensano fenomeni storici e letterari, come Lumpen, prefisso nel termine Lumpenproletariate aggettivo nell’opera di Bolaño Una novelita lumpen, sia perché racchiudono più significati, come avviene con la parola Geborgenheit – che corrisponde all’italiano “intimità” e, allo stesso tempo “sicurezza” – nella purtroppo profetica poesia che porta questo titolo e che intende mascherare l’uso falsamente amichevole di termini come appartenenza, intimità, sicurezza, cui si ricorre al fine siglare soprusi, rigetti ed esclusioni in una cieca corsa verso il precipizio. Altra manifestazione del dire poetico dalla quale non saprei separarmi sono i calembour, sui quali immagino, nel testo Verrai a prendermi un giorno, di essere chiamata, in un tempo altro, a rendere conto, I calembour sono collegati all’ironia, il cui senso – lo scrivevo qualche tempo fa a proposito della scrittura di uno dei poeti contemporanei, Leopoldo Attolico, che leggo e ascolto con il sorriso riconoscente di chi impara -è quello di cercare sempre un’altra angolatura, altre prospettive, altri punti di vista rispetto a ciò che viene fatto passare per l’unico punto di partenza possibile, sia questo spacciato per spontaneo sgorgare, sia esso, invece, solennemente iscritto in un canone che non ammette dissonanze.
Fatte queste premesse doverose, affermo di condividere pienamente l’affermazione di Brodskij e aggiungo che la banalizzazione, la riduzione del sapere in pillole, l’azzeramento della complessità sono colpe dalle conseguenze pesanti, conseguenze che pagheremo e che le generazioni a venire sconteranno ancor più duramente di quanto non faremo noi. La poesia va incontro al mistero e la ricerca del parlar franco, di quella parresia di cui parlavo poc’anzi, si affianca alla complessità, al carattere plurivoco del linguaggio poetico. Anche questa dialettica tra parresia e il saper dire «solo cose oscure» (Ingeborg Bachmann, Dire cose oscure) resta accesa e viva.

    

“Vorremmo rovesciar/tavole e torme a imitazione perenne/di quel gesto che fu/orma indelebile, desistiamo però”: questi versi, tratti dalla poesia che dà il titolo alla sezione Staffetta, sembrano alludere al gesto di Gesù che nel Tempio rovescia i banchi dei cambiavalute. Quali sono i tavoli che andrebbero rovesciati oggi e perché tuttavia si desiste dal farlo?

Quel passaggio di Staffetta si riferisce al gesto di Gesù riportato dagli evangelisti Matteo, Marco (i quali scrivono esplicitamente del rovesciamento dei tavoli di cambiavalute; è interessante notare che, mentre la versione della Bibbia di Gerusalemme riporta il termine “tavoli”, la Nuova Riveduta e la Nuova Diodati riportano “tavole”) e Luca. È un gesto che Gianmario Lucini, poeta, critico, editore, operatore instancabile per la pace e smascheratore di fariseismi, avrebbe definito “la giusta collera”. È decisa, sacrosanta collera nei confronti di chi entra, di prepotenza o di soppiatto, nel recinto del sacro (e sacro è il poiein, non come si intende sacro nelle religioni rivelate, ma nel suo continuo fronteggiare il mistero) per confondere piani e ambiti. E allora i tavoli da rovesciare oggi sono tanti, innanzitutto quelli dei suscitatori di paure infondate, dei manovratori di reazioni violente, degli spacciatori di menzogne. Perché «desistiamo però», perché rinunciamo a compiere il gesto di giusta collera? Ancora oggi resta attuale l’analisi di Immanuel Kant nella sua risposta alla domanda “Che cos’è l’illuminismo?”, che individuava nella pigrizia e nella viltà il persistere dello “stato di minorità di cui noi stessi siamo responsabili”.

      

Mai quanto leggendo la tua poesia si ha la sensazione che il significante conduca un gioco raffinato di sovrapposizione di senso: è una poesia che non mostra ma ri-vela, mette in scena per sovradeterminazione una stratificazione in grado di svelare lo spessore scandalosamente inavvertito nelle nostre parole e nei nostri riti, nelle nostre ossessioni contemporanee, nel nostro accecato e assordante presente. Una poesia per tutte: Undici settembre. Qui, con rigore chirurgico, dolorosamente sollevi come foglietti epiteliali pagine altre della nostra storia recente, non più visibili sotto a ciò che s’impone come “manifesto”.  E ti chiedo:  è la poesia il tuo “acquerello di Klee”, il tuo “antidoto alla fuga”?

La poesia è per me tutt’altro che evasione, è, sì, antidoto alla fuga, è, «pegno d’incanto, balzo, testimone». La predisposizione allo stupore, la sua attesa operosa non esclude il rigore nell’espressione, nei fatti, nei detti e nei contraddittori. Nello scrivere Undici settembre, non ho pensato soltanto ad affiancare i fatti di Santiago del Cile dell’11 settembre 1973 al “nine eleven” 2001. Come è chiaro dal mio parlare all’Angelus Novus, l’angelo della storia, l’acquerello di Paul Klee di cui scrive Walter Benjamin, la mia mente è corsa con dolore alla fuga di Walter Benjamin, all’attraversamento dei Pirenei nel settembre 1940, con una valigia nera (quale il contenuto?) che non fu più ritrovata. L’angoscia, lo sconforto, il morso della fine, la sua morte a Portbou – «azzardo e rischio sul confine ispano». Che cosa si sente di dire la poesia all’angelo della storia, il quale rivolge il suo sguardo, con gli occhi spalancati, la bocca aperta e le ali distese, al passato, a quell’unica catastrofe, al cumulo di macerie? La poesia abbraccia la frase di Benjamin incisa lungo quel tratto di strada che vide le sue ultime ore, quel tratto che è stato chiamato “cammino Walter Benjamin”, la frase che recita: “È più difficile onorare la memoria dei senza nome che quella dei famosi. Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica” e alla vicenda umana dei senza nome dà voce, come scrivo in 13 agosto 2011: «Se vuoi, dai voce alla storia».