Interferenze di Giorgia Monti | La spugna

 

Piccola nota introduttiva.

Questo il secondo racconto del mini ciclo che propongo per la rubrica.
Storie, come già indicato nella precedente uscita, scritte misurandomi con il mondo dell’infanzia, che tentano di indagare “il mondo adulto” dal punto di vista del bambino o bambina e che intendono evidenziare le aberrazioni che fin troppo spesso tradiscono anzitempo e in modo feroce quella cieca fiducia con cui ci si getta nel mondo e nelle relazioni, determinando inesorabilmente le persone che saremo a venire.
Tutti questi racconti si ispirano a fatti reali, come non dovrebbero essercene.

 

 

Per qualche strano motivo, sin da piccola, ho sempre pensato alla vita come a una grande festa. Sì, una cosa colorata con musica allegra da ballare sempre e persone buone, buone sul serio, sorridenti, leggere, con facce da festa e anche vestiti da festa. Una cosa bella, niente da dire. Era con questa convinzione che chiudevo gli occhi prima di dormire ed era con la stessa sensazione che li riaprivo la mattina. Le cose storte le vedevo come semplici incidenti di percorso. Qualcosa che si sarebbe aggiustato da sé, irrimediabilmente votato al meglio, alla felicità, alla riuscita. Perché sarebbe dovuta andare in modo diverso?
Già, perché?

Alle elementari ho scoperto che studiare mi piaceva, essere brava mi piaceva. Ero un po’ più brava della media, non di tanto, ma un po’ di più. Ero anche un po’ più bella della media, non di molto, ma un po’ più bella delle altre bambine, di sicuro la più bella della mia classe. Anche questo non posso dire che mi dispiacesse, ma non me ne sentivo responsabile. Non avevo fatto niente per esserlo. Erano molti i maschi ai quali sentivo di piacere, non a tutti, certo, ma a una buona parte di quelli che oltre ai lego, i soldatini, il pallone, le corse e le baruffe avevano un principio di interesse per il mondo femminile, io piacevo più delle altre.
A me più di tutti piaceva Michelino. Piccolo e brutto, con la carnagione olivastra, la faccia tonda e i capelli neri. Spesso anche gli occhi ce li aveva neri, non dentro, tutto attorno. A me lui lo diceva cosa gli succedeva a casa e io lo capivo che non era una cosa bella, solo pensavo che fosse possibile cambiarla. Era un incidente di percorso, qualcosa di sbagliato perché di sbagliare capita a tutti almeno una volta, ma poi la vita l’avrebbe messa dritta la cosa perché la vita è giusta.

Per gli otto anni organizzai la mia prima grande festa di compleanno, a casa mia naturalmente. Avevo invitato la Simona, l’Elisabetta, la Noemi, la Raffaella e anche la Monica. Dei maschi avevo invitato solo Michelino e Cristian che era simpatico e rideva sempre. Era tutto pronto, la torta, la tavola con i salatini e le bibite e le sedie tutte da una parte per poter giocare meglio. Cominciò a suonare il telefono. Non arrivò nessuno. Avevano tutte il mal di pancia, anche Cristian, dissero, ce l’aveva. Soltanto Michelino non si sapeva cosa avesse, ma non era venuto lo stesso. Restarono i parenti, pochi anche quelli. La separazione dei miei sembrava essere una roba complicata. Non per me, ci avrebbe pensato la vita. Decisi però che non avevo più delle amiche perché avere delle amiche era un incidente di percorso e io non avrei commesso lo stesso errore un’altra volta.

Parlavo solo con Michelino anche se non era più come prima, non per via della festa, era che lui mi diceva meno cose di una volta e io me ne accorgevo. Allora pensai che forse in certi casi la vita ha bisogno di una spinta. Io lo sapevo dove abitava Michelino perché casa sua non era distante dalla scuola e lui mi aveva mostrato il cancello e io avevo notato una tenda della finestra scuotersi.
Mi ci feci accompagnare un pomeriggio dicendo che ci saremmo trovati in un gruppo di compagne e compagni per fare i compiti, che erano le cose normali che facevano tutti gli altri bambini e bambine della classe, ma senza di noi. Non ebbi problemi con il campanello perché casa sua non era un condominio, ma una villetta con tutto il prato, i cespugli e degli abeti attorno. Mi stupii molto quando il babbo di Michelino disse alla mia mamma che era tutto a posto e che gli altri mi aspettavano dentro. Ricordo di aver pensato che la vita aveva aggiustato tutto e che il mio Michelino mi aveva organizzato a sorpresa una festa per rimediare a quel disastro completo del mio compleanno.

In casa si sentiva odore di cavolo e un silenzio che era come una nebbia perché non mi faceva capire niente.
Dove sono gli altri?
Di sopra, mi disse, vieni, ti ci porto.
Io non ero mica sicura di voler salire perché continuavo a non sentire niente, invece lo sapevo bene com’era quando i bambini e le bambine si trovano in gruppo. Non c’è nessuno che se ne sta così zitto neanche se stanno facendo le equivalenze.
Michelino?!?
Chiamai forte irrigidita sul primo gradino. La risposta che mi arrivò ebbe la forma di un’enorme manata sulla testa, fra i capelli, dove se diventa rosso non si vede niente. Neanch’io ci vedevo più niente e l’odore del cavolo mi stava facendo venire il vomito o forse era stata la sberla o forse la paura. Sì, la paura, perché ormai avevo capito che Michelino non c’entrava per niente, anzi, non era nemmeno in casa e io che ero andata lì per salvarlo non avevo più scampo. Non sapevo che cosa sarebbe successo esattamente, però capivo che non era nulla di buono e quello che mi faceva più male era che in quella trappola mi ci ero ficcata con le mie stesse manine solo perché pensavo che la vita fosse tutta una festa e che quella avrebbe potuto essere la mia, in qualche modo.
In qualche modo.

Quando tutto finì mi portò in bagno, mi lavò e mi rivestì con cura come fosse un altro. Poi mi prese per mano e mi riaccompagnò di sotto. Prima di aprire la porta avvicinò la sua bocca al mio orecchio e con una voce di ferro mi disse: se lo dici a qualcuno ti ammazzo.
Io lo sapevo di avere sbagliato perché di sbagliare capita a tutti almeno una volta nella vita, ma non avevo voglia di dirlo proprio a nessuno che la colpa era tutta la mia. Era un incidente di percorso, mi ripetevo nella mia testa, non era niente.
Fuori c’erano lo stesso prato e gli stessi cespugli di prima e lo sentii dire cose normali con voce normale alla mia mamma, così pensai che dovevo essere caduta da quelle scale e di sicuro avevo battuto forte la testa. Di sicuro mi ero sognata tutto, neanche il dolore era reale. Prima o poi io avrei avuto la mia vera grande bella festa.

Ogni tanto mi sorprendo a pensarlo ancora adesso, qui, sul bordo della strada, quando l’inverno sferra i suoi colpi bassi e l’eroina in circolo è sotto quota e la cocaina è finita al primo servizio. L’unica cosa da cui mi sono liberata è la paura, sarà mica poco, mi dico. Però, davvero, non ho più paura di niente, non delle botte, non delle malattie, non di me stessa e degli errori e nemmeno degli uomini ho più paura.
E’ da un pezzo che ho capito che l’unica cosa che mi resta davvero da festeggiare è il momento in cui mi si preparerà per la tomba… eppure l’altro ieri quando mi sono incrociata la Monica e lei ha fatto finta di non riconoscermi, vi giuro che stavo per chiederle: ehi, ma per che cazzo al mio compleanno, tu, non c’eri?