Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Postille su Danila Di Croce (<<Ciò che vedo è la luce>>, PeQuod, Rive, 2023).
Danila Di Croce (1974) vive ad Atessa (CH) ed è docente di Lettere nel Liceo Scientifico della sua città. Ha pubblicato la sua prima raccolta di poesie, Punto coronato (ed. Carabba), nel 2011 e suoi testi inediti hanno ottenuto diversi riconoscimenti. Da segnalare, in particolare: primo premio alla XXI ed. di InediTO – Colline di Torino e al Daniela Cairoli 2023; tra i vincitori del Premio Ossi di Seppia, sez. A, 2023 e dell’VIII ed. del Premio nazionale editoriale di poesia Arcipelago itaca (sez. silloge breve); seconda classificata al Premio Gianmario Lucini 2023 e al Concorso Sinestetica 2023; tra i due finalisti del Premio Europa in versi 2023; Menzione d’onore al Premio Rodolfo Valentino 2022-23; finalista al premio Poeti Oggi 2023 e al concorso Guido Gozzano 2022; selezionata al Premio Città di Como 2022 e a Europa in versi 2022. Quest’anno è stata membro di Giuria del Premio InediTO e suoi testi figurano su alcuni blog e antologie.
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È poesia religiosa, teologica, cristocentrica, quella di Danila Di Croce. Nel dettato di <<Ciò che vedo è la luce>>, la Nostra si produce in un lirismo confessionale (cfr. p. 114, <<è il tempo della confessione>>), in un dialogo con quel <<Tu>> iterato nei componimenti, che solo progressivamente l’Autrice disvela e dichiara quale <<Dio>>.
Il lemma anzidetto, infatti, compare solo a p. 141 del macrotesto (cfr. <<e tu, Dio (…)>>) quasi a voler porre in dominante l’impronunciabilità di una realtà umanamente indefinibile, non oggettivabile, poiché – in quanto mysterium tremendum et fascinans – ontologicamente trascendente ogni forma di rappresentazione.
La logopea e la fanopea della Di Croce recepiscono i topics e le ipotiposi della narrazione evangelica. La semantica è incentrata sulla temporalità cairologica dell’attesa, iconizzata, ad es., per il tramite dei correlativi del seme, del grembo, del travaglio. Sempre a livello contenutistico l’Autrice realizza una mise en relief delle questioni relative ai cedimenti della fede (cfr. p. 48, <<Di quale fedeltà si è mai / capaci>>) esemplificati dal traslato evangelico del <<sale [che] può perdere / sapore>> (ib.).
Altri argomenti d’indagine, che percorrono la silloge, sono il silenzio di Dio (cfr. p. 56, <<Il tuo silenzio a volte è duro>>), l’imperscrutabilità del divino, il suo manifestarsi a volte quale Deus Absconditus isaiano (cfr. Is, 45, 15), la sua natura di Totalmente Altro da quanto concepibile.
E tuttavia, nella dialettica tra fides e ratio, che permea di sé il corpus lirico, la distanza dall’assoluto non è imputata a quest’ultimo, ma allo stesso io-lirico; in altri termini – enuncia l’Autrice con linguaggio assertivo – non è Dio ad essere lontano dall’uomo, ma viceversa.
Ciò si evince dal testo di cui a p. 79, dove è la stessa poetessa che nel rapporto con la trascendenza si percepisce mancante
Sei più presente, più di quanto il cuore
mi riveli. Sono io a non centrare
il punto (…)
Sono io l’assente.
Ciononostante – e a fortiori per il mea culpa che abita i versi appena indicati – non è mai revocata in dubbio l’appartenenza della creatura al creatore che è <<pure così vivo / così presente (…) che pure t’appartengo, mi conduci / E come sa d’eterno / questa strada…>> (cfr. p. 80). Si notino le figure anaforiche (pure – così – così – pure) disposte a chiasmo, che enfatizzano in modo pervicace un credo ostinato, che non si dà per vinto, che agisce nella visione non cadùca dell’esistenza ma, anzi, nell’avvertimento della sua eternità, come indica l’aposiopesi di <<questa strada…>> (ib.) ove i segni interpuntivi di sospensione, esemplificano, appunto, il continuum esistenziale oltre la finitudine del segmento terreno.
Ma la sospensione non è solo orizzontale, nel senso sopra indicato. Essa si atteggia – a volte – a momentaneo stallo gnoseologico, ad una verticalità che conosce, simul, anabasi e catabasi (cfr. p. 97, <<(alti e bassi a celebrare il rito / della sospensione)>>), quasi l’io fosse sempre tra terra e cielo, in una metaxú (che insieme separa e collega) nell’accezione fornitane da Simone Weil e dalla stessa icasticamente connotata dal ponte (attraversando il quale <<si va a Dio>>), referente oggettuale utilizzato anche dalla Di Croce (cfr. p. 102)
Ci si incontra così, che alzi gli occhi
e ti trovi davanti come un ponte
da passare
(…)
tra due sponde di tempo in breve sosta.
La struttura dialogica dei componimenti (io-Dio), il tono orante che abita i versi, l’afflato mistico che in essi si rinviene, il lirismo contemplativo dell’eloquio, assumono a referente antropologico l’homo religiosus di Viktor Frankl o anche quaerens per dirla con George Steiner, sicché il dettato si sostanzia in poesia-preghiera, poesia d’ascolto del Verbo, poesia che innesta il Logòs–Parola nella parola della poetessa, con dichiarata fiducia nella presenza del Dio rivelatosi, incarnatosi nella Storia (cfr. p. 125), già venuto eppure sempre Veniente, da introiettare nel <<grembo fragile della storia>> (cfr. p. 120) ed in quello individuale del fedele (cfr. ib. <<della mia / storia lenta a concepire>>).
(…)
Ma, vedi, non mi smuovo
dalle tue parole.
Che non passeranno,
lo credo (…)
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