Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Nota di lettura su <<Il geranio sopra la cantina>> di Evaristo Seghetta Andreoli (puntoacapo, 2023)

 

Nell’opera in commento, l’Autore, sin dalla lirica incipitaria di p. 13, dominata dai cromatismi del rosso (<<molti tipi di rosso>>; <<labbra rosso rubino / come sangue>>; <<come sole al tramonto / come il geranio sopra la cantina>>), introduce il tema del limite temporale che caratterizza l’esistenza fisica di ognuno (cfr. Sezione I, <<Il geranio sopra la cantina>>).

A tale constatazione, all’apparenza inappellabile e definitiva, il poeta oppone il suo desiderio di durare oltre <<il confine breve dell’esistenza>> (cfr. p. 14) affidandosi ad un colloquio che pare rivolgersi al trascendente: <<Preghiamo che il nostro stato di grazia / perduri senza fine>> (cfr. ibidem).

Il senso di vacuità, il <<vuoto da colmare>>, è intenerito dalla rêverie, dall’abbandono ai ricordi, da uno sperdimento quasi onirico che non sfocia mai nella percezione della vanità del sogno; non a caso il Nostro afferma, a p. 16, che <<[i sogni] ci rendiamo conto / che erano veri>>.

Ed anche laddove la percezione del reale si faccia più amara (cfr. p. 17, <<Un lunedì (…) /appeso al vuoto dell’illusione>>) v’è pur sempre il nóstos alle origini edeniche dell’umano, al momento antecedente la caduta di cui alla narrazione del primo libro veterotestamentario.

Certo, l’Autore è conscio che l’approssimarsi della fine (che tutti ci riguarda a prescindere dall’età anagrafica) possa gettare – com’è normale che sia – un’ombra sinistra sul percorso esistenziale (cfr. p. 18, <<Ora mi sono abituato a visioni / di corto raggio>>; ma – e l’avversativa è d’obbligo – la bellezza <<cattura / gli occhi e meraviglia ancor più lo sguardo / anche ora che sta calando la sera>> (cfr. p. 18).

L’io-lirico percorre una verticalità che conosce catabasi e anabasi (in tale ultimo caso <<della coscienza>>; cfr. p. 48); e sembra che lo sprofondamento, il precipitare (cfr. p. 18, <<la via usata, la mia, la nostra / già sprofondata nel non senso>> o p. 32 <<Poi è un precipitare>>), si ponga in rapporto di causalità con la successiva e conseguente ascesa, con il rifiorire (<<sprofondata (…) poi rifiorita>>, cfr. p. 18), quasi a voler significare che non può conoscere Cielo chi non ha fatto esperienza della sua descentio ad inferos. Per dirla con il Milton di Paradiso perduto: <<Lunga ed impervia è la strada che dall’inferno si snoda verso la luce>>.

Anche l’henosis è dato costante nella riflessione del poeta; dato che si assume senza alcuna scepsi in ordine alla sua perduranza (cfr. p. 19, <<Noi avvinti nell’armonica unità / che non lascia spazio a dubbi riguardo al divenire>>;) e capace di integrare le alterità nella reductio ad unum delle medesime (cfr. p. 19, <<te unita a me>>; ib. <<Siamo uniti>>), peraltro <<per l’eternità>> (cfr., ib.), id est oltre gli angusti confini di quanto a tutta prima si mostri separato e immanente.

In tale fase dell’esistere, dove il tempo si dilata (cfr. p. 22, <<Lentamente scorrono le ore>>) e l’incedere diviene passo trascinato (cfr. ib., <<mi trascino fino a sera>>) e il redde rationem si fa prossimo (cfr. p. 25, <<Occorrerà molto coraggio il giorno / del giudizio>>), si palesa la dimensione dell’attesa (cfr. p. 26, <<sono pieno di attese che pesano>>) che è simul avvertimento del vanire e proiezione nell’assoluto (cfr. p. 29, <<in questa lenta / disgregazione>> vs <<non siamo pronti / per l’impatto con l’assoluto>>) seppure sempre adombrata da un mood umbratile e crepuscolare e dal timore – laddove non certezza – di confondersi nel nihil di ciò che è <<senza un approdo, / senza nessun porto>> (cfr. p. 37).

Nella seconda Sezione (<<Gli occhi del bambino>>), il poeta ripensa en passant la sua infanzia – perduta, si potrebbe dire – e sempre contrapposta all’avanzare dell’età; il momento temporale del tramonto, il punto cardinale dell’ovest, si atteggiano a correlativi oggettivi o strutture archetipali d’una condizione esistenziale patita ab imo corde, internamente, e che si palesa anche a livello fisiologico nelle <<crepe>> (cfr. p. 51) del volto; del pari, anche il venerdì pasquale, la parasceve, il sentimento della colpa (cfr. p. 54, <<Intanto un gallo ha cantato tra volte, / so bene per chi>> costituiscono referenti retorici dell’avvertimento d’una condizione mortale il cui esito oscilla tra il nulla e il percepirsi <<parte del divino>> (cfr. p. 62); l’Autore partecipa al lettore – in tal caso – la propria scepsi, lo stallo del giudizio in ordine alla domanda prima ed ultima dell’esistere, il dubbio <<del cercare di capire>>; il tutto nel serrato confronto e scontro tra res cogitans (la realtà psichica) e res extesnsa (la realtà fisica).

È poesia interrogante quella di Seghetta, volta a porre domande di senso, a denunciare la vacuità, il difetto d’uno spirito che langue nella percezione della mancanza: cfr. p. 69, <<Quale pioggia o quale neve dovrà / cadere a colmare il vuoto interiore?>>, domanda, quest’ultima, che riecheggia il luziano <<Di che è mancanza questa mancanza, /cuore, / che a un tratto ne sei pieno? / di che?>>.

In <<Sortite eroiche>> (terza Sezione della silloge) il poeta iconizza una mise en relief del resistere innanzi alla presa di coscienza dell’avvicinarsi dell’evento terminativo (cfr. p. 75, <<la nera Signora>>); ciò in uno con la constatazione del rarefarsi delle figure amicali (p. 76, <<Sergio>>; p. 78, <<Brotto>>) o parentali (cfr. p. 79, <<Ebbi un nonno che non conobbi>>; p. 80, <<(…) mio padre>>; p. 81, <<mia madre>>), presenze trapassate o in procinto di esserlo – come del resto lo siamo tutti – (cfr. p. 77, <<I cari, valige / in mano col biglietto in bocca pronto / per il Caronte d’occasione>>).

La quarta Sezione, dal titolo <<Selvatici e puri>>, è una sorta di bestiarium; gli animali ivi indicati (i gatti, la randagina, le lucertole, la volpe, il rospo, etc. – cfr. pp. 83-95 –) divengono referenti di qualità e percezioni pertinenti anche all’umano: dalla paura (cfr. p. 85, <<Tutti i gatti hanno paura dei botti>>) all’atarassia (cfr. p. 90, <<Sta a riposare il rospo filosofo / (…) nella beatitudine di quella invidiabile atarassia / (…) stoica apatica>>), ma il tutto nell’ottica della constatazione d’una maggiore spontaneità dell’essenza animale (degli animali) rispetto a quella degli uomini, meno capaci, questi ultimi, di esternare la loro istintualità, e appunto, con la felice locuzione adottata dall’Autore, meno <<Selvatici e puri>>.

In <<Clausure>> (quinta Sezione) viene dato conto dell’obbligato confino dall’alterità e dalla natura cui s’è stati costretti dalle note restrizioni imposte a causa della pandemia da Covid-19, che, pure nella drammaticità dell’evento, forse ci ha insegnato a recuperare ciò che davvero conta: l’essere liberi e in interazione. A questo si riferisce Seghetta quando giustappone la vicinanza quale <<necessità di sopravvivenza>> (cfr. p. 99) con l’<<assenza del prossimo>> (ib.), quando afferma in termini anaforici – nella sostanza – che il <<Camminare soltanto camminare / (…) solo camminare>> (cfr. p. 100) è comunque <<giorno senza senso>> (ib.) se l’andare è solitario, se non conosce luogo d’incontro.

In <<Web>> (sesta Sezione) viene posto l’accento sul nuovo linguaggio imposto dai dispositivi tecnologici; l’uomo, nelle sue interazioni telematiche, e dunque non più fisicamente presente all’altro, si riduce a <<frammenti di dialoghi>> (cfr. p. 106); è dunque atomizzato e – in senso baumaniano – liquido, latitante <<tra i post e le icone / frutto di un’illusione appena nata>> (cfr. p. 106).

Chiarito il dato contenutistico o – se si vuole – semantico dell’opera, e senza volersi addentrare nella più compiuta analisi dei livelli strutturali, formali, retorici, metrici etc. del corpus lirico (che certo meriterebbero ben altro spazio), è comunque qui possibile affermare che il dettato di Seghetta predilige il registro linguistico del trobar leu; l’intentio lirica dell’Autore è infatti preordinata a lasciarsi comprendere, a parteciparsi al lettore senza costringerlo a faticose operazioni ermeneutiche; può parlarsi, nel caso di specie, ed a pieno titolo, con Saba, di poesia onesta; l’assunzione a referenti retorici delle res del quotidiano (poesia in re a dire della cd. “linea lombarda”), unitamente all’utilizzo di versi piani – dove l’incipit e l’explicit d’ogni verso sono sempre riconoscibili – costituiscono espedienti stilistici di cui l’Autore fa sapientemente uso. La fruibilità del testo – qualità ad oggi rara – è altresì garantita dall’uso d’una prosodia che sovente ricalca la scansione ritmica dell’endecasillabo, sicché, la densità degli ictus che si rinviene, assieme ai ritorni fonici (rime, assonanze, consonanze) sia in clausola ma più spesso interni (a guisa di rimalmezzo), conferiscono alla struttura dell’opera, in termini acustici, una musicalità o cantabilità sempre esemplari.

Non c’è ovviamente necessità di dire che siamo al cospetto d’un poeta di altissimo livello, che ha già dato a più riprese prova del suo talento poetico e della sua voce precipua. Il geranio sopra la cantina ne è l’ennesima conferma.

 


Evaristo Seghetta Andreoli è nato nel 1953 a Montegabbione (TR). Ha compiuto studi classici e giuridici e ha lavorato in un Istituto di Credito. Fa parte dell’Associazione Pianeta Poesia di Firenze, dell’Associazione Tagete di Arezzo, dell’Officina delle scritture e dei linguaggi di Perugia, e della Libuni – Libera Università di Città Della Pieve. Collabora con le riviste letterarie Testimonianze, Euterpe e L’area di Broca. È stato ospite di varie rassegne letterarie tra cui “Modena Poesia Festival”. Le sue raccolte poetiche: I semi del poeta (Polistampa 2013); Morfologia del dolore (Interlinea 2015); Inquietudine da imperfezione (Passigli 2015, Premio Firenze Europa Fiorino d’oro 2015, Premio Mario Luzi 2016/17); Paradigma di esse (Passigli 2017, Premio Certamen Apollinare Pontificia Università di Roma 2018, Premio Città di Sassari 2018); In tono minore (Passigli 2020, Premio Il convivio Taormina 2020). Compare su varie antologie e blog letterari. Molte sono le recensioni alle sue opere, tra cui diverse su «La lettura del Corriere della Sera».