“Giovenilmente vezzeggiando: Dante”, di Mauro Roversi Monaco

 

Durante degli Alighieri è tanto grande che perfino il sottoscritto può prenderne un pezzo. In lui troviamo la storia greca, la storia romana e quella a lui vicina; la mitologia greca e la romana; la letteratura greca, la romana e la coeva; la scienza dei Greci, dei Latini e quella del suo tempo (Arabi compresi). E così per la filosofia: e possiamo aggiungere anche la Storia Sacra.
Ha scritto la più grande opera della Cristianità e lo ritengo il più eminente cristiano dopo Cristo, in tutt’i sensi e significati.
Dell’immenso Vittorio Sermonti (che triade quei fratelli! Lui, Giuseppe, Rutilio… possono ricordare i De Chirico, gli Huxley; i nostri Arcangeli (Nomen omen): Gaetano (poeta: dimenticato), Francesco (critico d’arte), Angelo (musicista), riporto qualche osservazione, arricchendola con un’ incoscienza degna della “Corrida”.
Dante scrive già nella lingua che, dopo più di sette secoli, ancora noi parliamo: “L’idïoma gentil, sonante e puro” alfieriano, noi che facciamo parte “del bel paëse là dove ‘l sì suona”: Tedeschi e Francesi, per limitarci a loro, non hanno questo raro privilegio.
La lingua è rimasta, ma ecco qualche importante differenza fra la forma mentis del Poeta e della sua epoca rispetto a noi: Vero = Reale: la verità è per noi una sanzione simbolica della realtà, ne è un’iperbole. Dante e il suo tempo seguivano il procedimento inverso: la realtà era una delle tante possibili manifestazioni simboliche grazie alle quali l’uomo può intravedere, presentire la verità, che è in eterno presente in Dio. E ogni opera attraversata dallo spirito profetico è portatrice di essa verità. E l’Eneide – che sapeva a memoria – gli par percorsa dallo spirito profetico (prefigura la Pax Augusti, condicio sine qua non della venuta del Cristo). Di talché, già nel II canto, troviamo: “Tu dici che di Silvio il parente…” dove san Paolo ed Enea sono considerati sullo stesso piano – entrambi vanno “a immortale secolo” – quasi anticipasse le meraviglie della scuola di Careggi. Né teme di chiamare Dio “sommo Giove” …E nel IX Virgilio avverte il sodale che, se guardasse Medusa, diventerebbe pietra: pagine e pagine si riempirebbero, con riferimenti “pagani” attivi in temperie cristiana. Altro che Omnes dii gentium daemonia!
Nel verismo escatologico di Dante il futuro non è, come i nostri tediosi futuri, una prospezione ideologica del passato sparata nella cruna del presente, è storia contemporanea di Dio, cronaca dell’eternità.
Noi consideriamo la Natura in contrasto con lo storico e con l’artificiale: l’evo medio no. Esso non è conservatore di un ordine naturale creato una volta per tutte nella notte dei tempi, che noi danneggiamo: l’eterno presente di Dio si attua nella storia dell’uomo. L’arte è a Dio quasi nepote. Medianti gli artifici della tecnica l’uomo non fa che alterare, imitandola, la Natura, o assecondarne i processi in ottemperanza col Genesi. La mietitura non è meno naturale del frumento; una cattedrale o una scarpa testimoniano della vita del creato non meno di una rondine o del mare.

Venendo ai versi, l’endecasillabo dantesco (come il foscoliano, il leopardiano ecc.) si giova di un accento di IV e/o di VI. Tenuto conto delle tre uscite (sdrucciola, piana, tronca), degli accenti secondarî, delle combinazioni all’incontro degli emistichi e delle sedi della cesura abbiamo ben 261 varietà formali. Non può esistere un accento di V. L’immedicabile “parea che di quel Bulicame uscisse” è frutto dell’errore di qualche copista. Folle e temerario, propongo “pareva che del Bulicame uscisse”.

Il XXVIII dell’Inferno, che io sappia, è il canto più ricco di accenti (apparenti, per me) di V.

Provo a stilare un elenchino:

36: “fuor vivi e però son fessi così”;

66: “e non avea mai ch’una orecchia sola”;

102: “Curïo, ch’a dir fu così ardito”;

103: “E un ch’avea l’una e l’altra man mozza”;

105: “che diedi al re giovane i ma’ conforti.”

Il v. 36, compitato “alla lettera”, consterebbe di due emistichi di cinque sillabe con accento sulla seconda e sulla quinta. Non mi pare che armonizzi col resto, e mi sembrerebbe meglio spingere con forza su “son”, ottenendo un endecasillabo a maiore (il senario tronco funge da settenario, e il quadrisillabo tronco da quinario): “fuor vivi e però sòn / fessi così” (ovviamente, lo dico una volta per tutte, con sinalefe fra ‘vivi’ e ‘e’). A minore sarebbe invece il successivo, con sineresi di ‘avea’: “e non avé(a) / mai ch’una orecchia sola” (mi pare meno proponibile “e non avea mai ch’ùna / orecchia sola). Il terzo vorrebbe, io credo, un forte appoggio su ‘fu’, e sarebbe ancora a maiore (“Curïo ch’a dir fù / così ardito”). Il quarto a me pare analogo al secondo: “e un ch’avé(a) / l’una e l’altra man mozza”, sempre a minore.

Il quinto pare irrimediabile. Non si può scindere ‘giovane’ da ‘re’: ‘giovane’ essendo aggiunto (così chiamavano l’aggettivo quando segue e, seguendo, “determina e scolpisce”, come afferma Pestelli) proprio di ‘re’. Non si può disgiungere ciò ch’è aggiunto (per la contradizion che nol consente…). Non sarebbe quindi legittimo scandire “che diedi al re / giovane i ma’ conforti”, perché la cesura deve coincidere col senso.

A questo punto soccorrono due commentatori, Lana e Césari – ma chissà quanti altri: io, per mia pochezza, ho ricordo solo di ‘sti due – che propongono varianti del tipo “che diedi al re Giovanni i ma’ conforti”, oppure “che al re giovane diedi ecc.”.

Dicevo all’inizio che è il canto più ricco di versi che in prima istanza battono sulla V, versi nei quali si ha la successione di due ictus, uno grammaticale e uno metrico che, come dire, “mettono in allarme”, danno una sorta di scossa. Mi pare sia fisiologico nel canto della macelleria (“già veggia, per mezzul perdere o lulla”, “il tristo sacco”, “infin dove si trulla” ecc.), dove i microtraumi son continui.

Ma anche in altri luoghi troviamo accenti apparenti di V: ad esempio (qualche metricista, se ben ricordo, lo battezza “endecasillabo asmatico”, e rileva che si giova di accenti di IV e VIII: non fa cenno alla V) nel II del Purgatorio: “venendo qui, è affannata tanto”. Dove, se leggo “venendo qui, è / affannata tanto”, pur rispettando le 11 sillabe pronuncio un verso orrendo. E invece è bellissimo, con quella minima sospensione familiare ed esplicativa (“venendo qui, // è affannata tanto”).
E non godiamo troppo della conferma dataci dalla punteggiatura: essa è un posterius, i manoscritti non la riportano. Bisogna averlo ben presente: la metrica prevale sull’interpunzione, la precede: in “che, venendomi incontro, a poco a poco” (Scartazzini-Vandelli, I dell’Inferno, v.59), la virgola dopo ‘incontro’ non deve indurci alle dodici sillabe. La sinalefe si dà nonostante la virgola, e la ‘o’ di ‘incontro’, virgolata, si fonde con la ‘a’ di “a poco”.