Giancarlo Pontiggia, Il moto delle cose, Mondadori 2017: recensione di Nadia Scappini
Esser vivo, essere, esserci:/ solo a questo pensi, e pensi/
come celare al mondo il tuo orribile segreto:/ di stare, di
stare più che puoi nel mondo/ azzurro, tra i cieli e le
terre, i fiori e gli asfalti,/ starci comunque…
Evoca forze cosmiche, il movimento ciclico della vita, questo nuovo libro di Giancarlo Pontiggia, quasi una caccia spirituale tenace innervata dal desiderio di vagliare una dimensione che lo sollecita, lo tormenta, lo attanaglia e nella quale ostinatamente prova a orientarsi, a cercare un ordine, a cogliere un barbaglio di luce.
Qui le domande, il mondo, i pensieri, consci e inconsci, ma anche le sensazioni, i sentimenti, i moti impercettibili del vivere, le emozioni, le memorie cercano un’armonia smarrita nella discontinuità e nelle sconnessioni dell’esistenza: “senti/com’è la vita, tutta, un trepidare// di mezze verità, che s’inventrano/ nelle cantine – umide, umbratili -/ della mente (E ciò che persiste). Dove la mente non è – come talvolta ancora, illuministicamente, si crede – una fonte di acqua limpida, o una vasca di luce che orienta e mette ordine, ma un’entità intimamente connessa ai processi corporei, quindi un luogo dove il buio predomina, dove le verità si offuscano, degenerano, s’immelmano fino a diventare altro da sé.
Colpisce la presenza di ombre, dolorose ombre, vere e proprie anime vaganti che si staccano da un mondo ancestrale, innominabile e insieme concreto di cui si popolano i sonni del poeta, quasi fossero memorie prenatali. Una convocazione di spiriti che lo ha colto di sorpresa, non ricercata né voluta, della cui suggestione tenta di dare conto attraverso la parola. Esperienza difficile, ma irrinunciabile e benedetta a conferma di come la poesia possa farsi un aldilà in terra, di come abbia a che fare con profezia e preghiera, antidoto alla nostra finitudine, alla nostra precarietà sulla Terra. Perciò la scelta delle parole, l’ordine in cui compaiono nel testo non sono arbitrari, ma il modo preciso di porsi dell’emozione stessa nell’atto del sentire. Un impulso oggettivo e soggettivo insieme, un’obbedienza a leggi superiori all’arbitrio di una sapienza, di una cultura.
Una poesia religiosa, dunque, non in senso confessionale, tantomeno devozionale, ma etimologico. Poesia di ponte, di legame compenetrante e consustanziale tra uomini, creature, cose nel ventre della natura, dove s’incontrano con respiri diversi, battiti forti, pulsioni complesse, segnali di vita sommersa, ignota, che esige di essere evocata, portata alla luce.Religiosa, perché in essa si coglie il senso di una nostra debolezza, di una nostra incompletezza. Il senso che una comunione perfetta tra vivi e morti sia impossibile a causa delle zone impenetrabili, incomunicabili, persistenti in ciascuno di noi. Come se ci toccassimo nella nebbia, senza mai vederci fino in fondo, senza poter penetrare l’anima dell’altro. Ma si coglie, di converso, una sottile tenace volontà (frutto di un paziente muto ricercato dia-logare?) di comunicare con loro, che ci hanno preceduti nell’al di là, con una intimità non ancora sperimentata in una dimensione di speranza escatologica, che nasconde la nostalgia di un tempo epifanico, di un miracolo imminente.
L’itinerario che via via si palesa in questo libro è esperienza forte per il lettore chiamato a sostenere densità, intensità e questioni ultime. Perciò necessita di una lettura lenta, per gradi, con soste che consentano al pensiero una tregua di ricognizione. Perché le parole parlano del nostro e al nostro mondo interiore con una potenza che richiede tempi lunghi per metabolizzare.
Colpiscono, danno una vertigine, i ripetuti riferimenti agli atomi della mente, i confini della mente, la calotta della mente, il buio intediato della mente che si spappola, ostinata-mente, la fiamma della mente, le stanze della mente, la roccia della mente, una mente invasa, la caverna della mente, il sonno della mente, le cantine – umide, umbratili – della mente. L’utilizzo di un lessico che allude a concavità – incavedia, incunea, eremo, voragine – e a turbolenze – bollore, fermento, tremito, tumultuare – fino all’efficace, insostituibile delirare che può, a mio parere, condensare l’intera esperienza de Il moto delle cose. Uscire dal solco segnato dall’aratro, sconfinare in regioni sconosciute eppure ben radicate nell’inconscio, non è esperienza da poco. Avvenuta, in questo caso, non per via psicanalitica, né mistica, ma in grazia e in virtù della potenza della poesia (che forse in qualche modo misterioso le comprende).
Quanto forte sentire ci sconquassa, seguito da un’ipertrofia di pensiero, leggendo e ti ritrai/ in un fortino di pensieri immensi,/ che ti sovrastano// turriti, irriducibili/ sei lì, ma non sei lì, sei/ dove altre scale sprofondano,/ ed è buio, è caldo, ritorni/ a ciò che già era, al principio/ che luceva quel giorno… (Scale). Un sentire già del poeta, congenito e congeniale – direi – plasmato e nutrito sul sentire dei classici, qui messo alla prova dalla perdita e dai vuoti che l’esistenza impone, facendosi prossimo a un cammino di iniziazione.
Lucrezio, annunciato nel titolo, tiene banco fino all’ultima pagina.
Come non emozionarsi scorrendo i versi per quanto/ il nostro animo si volga/ oltre, si espanda/ in pensieri celesti, vorticosi, niente/ se non per poco/ lo appaghi,// e subito/ la noia lo prenda, e si resti/ come un bastimento in panna (Ansiosi un pensiero ci tormenta), ripresi nel testo Una foglia, minima: Ma sempre/ un’ansia ti riprende/ di esserci, di essere/ qui, nell’imperfetto/ dove:/ <<soffre solo, forse,/ chi troppo volle,// o vuole>, e in E vedi: … e così poco/ è la vita,// che un verso, un muro, un letto/ sono più lunghi di te,// erano prima, e sono dopo/ di te, con quel tormento della mente così moderno, attuale, già mirabilmente espresso dal poeta latino nel I secolo avanti Cristo:
Si possent homines, proinde ac sentire videntur/ pondus inesse animo quod se gravitate fatiget,/
e quibus id fiat causis quoque noscere et unde/ tanta mali tam quam moles in pectore constet,/
haud ita vitam agerent, ut nunc plerumque videmus/ quid sibi quisque velit nescire et quaerere semper/ commutare locum quasi onus deponere possit (Lucrezio, III, vv.1053-1059).
E Dante, che fa capolino in Scale: cos’era – ti chiedi – questo/ fervente agitìo,/ questo mùgghio/ di vite che premono, ansano,/ che ribollono/ nella gran pappa del mondo…” e, più esplicito ancora, in Si squaderna: “Si squaderna/ il principio scosceso/ delle cose, la sua broda// intonsa, fermentante.
Che forza, ancora, l’aggettivo possente reiterato, che ci si ficca in testa e non si schioda più, come le chiuse, spesso di una sola parola dopo uno spazio bianco, di una bellezza struggente nella loro icasticità. Ma a queste Giancarlo Pontiggia ci aveva già abituati nelle precedenti raccolte.
La sua voce, del resto, come quella di ogni grande poeta, non può non accogliere in sé le suggestioni della parola dei poeti di cui si è nutrito e dunque ri-suona; risuona con una sonorità capace di produrre un piacere fisico; come la sua memoria non può non essere permeata dalle memorie dei suoi cari, a ritroso nel tempo, fino a costituire una memoria remota, ancestrale. La poesia che gli interessa e lo interessa è dunque esperienza di una parola che si dilata, come una rete a strascico, oltre la sua vita personale, assorbendo vite che stanno alle origini delle nostre stesse percezioni. Come accade al bimbo di Nasce, il bimbo, alla vita, e vede, che Viene/ dal fondo dei popoli, delle madri/ antiche come la specie, del tempo/ in cui tutto fu cielo, e acque, e frastornanti/ fogliami, quello stesso che, venendo alla luce del mondo, Risale, dai grumi e dai fanghi/ di ere troppo remote.
Numerosi sono i livelli di significato, i fili evidenti e quelli segreti, nascosti anche al poeta che tenta di restituire la complessità del mondo, la vastità irriducibile, abissale del nostro stare in esso, ponendosi al livello dei suoi lettori, fidandosi della lingua e della dimensione immaginativa della parola, in cui è molto di più di quel che egli sappia.
La poesia risponde cercando una parola che tenga insieme la contraddizione, il conflitto perenne tra il disordine animato, ma possente, del sentire e l’astrazione dei processi intellettivi che, mentre fanno ordine, ci allontanano dall’intuizione del vero. E pure di quell’ordine abbiamo bisogno.
Come ha bisogno il nostro poeta di lettori attenti. Ad essi suggerisce che la sua ricerca di verità sta nella lingua e nella dimensione immaginativa della parola, ma non pretende di essere riuscito a possederla. Perciò li invita a continuare la ricerca di ciò che esse ancora nascondono.
Nessuna poesia, del resto, può essere mai compresa fino in fondo. Ciascuno ci prova a modo suo, come può e sa.
Ma la lama di luce, l’unghia del tempo che ciascun lettore, con la necessaria libertà, riuscisse ad intravedere, potrebbe rivelarsi incontro-ascensione-discesa, comunque traccia di cammino fecondo tra i miti, dentro le parole degli antichi poeti che hanno segnato straordinarie aperture nella nostra civiltà.
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