Fenomenologia del silenzio di Anna Rita Merico (Musicaos ed., 2022). Recensione di Ivano Mugnaini
Polimorfo e univoco, individuale e corale, complesso e lineare, concreto e onirico. La lista degli “ossimori” che vengono alla mente leggendo il libro di Anna Rita Merico è ampia e in continua evoluzione. Sì perché si tratta di ossimori a loro volta spuri, intricati, in grado di contenere, come scatole cinesi, ulteriori sottocategorie, in alcuni casi talmente libere e ampie nel loro estendersi in direzioni avulse dall’orientamento atteso da creare ribaltamenti ottici di visione e di senso. In altre parole, questo libro abbraccia un arco ampio e significativo della produzione letteraria dell’autrice e i testi che contiene si succedono a livello cronologico sfociando in un’interazione che tramuta la retta in segmenti frastagliati fatti di interazioni, richiami, rimandi, allusioni e riproposizioni di stilemi e di contenuti che, ineluttabilmente, mutano sia la radice che i tronchi e le diramazioni. Un sistema organico in cui la varietà, la totalità e l’autoregolazione trovano costante conferma in un dialogo assolutamente spontaneo tra l’autrice e il proprio tempo (vissuto e reso materia poetica), tra le sillogi che compongono il libro e tra i versi e i lettori, chiamati in causa senza trucchi da ciarlatano, con serietà ed eleganza.
Fenomenologia del silenzio traccia le tappe di un cammino poetico che spazia nell’arco temporale che si estende dal 2004 al 2021. Si articola in tre sillogi, “Segnate pietre” (2004), “In the process of writing” (2006) e “Dall’angolo bucato entra memoria” (2015), e si conclude (ma con un finale quanto mai aperto) con un ampio florilegio di inediti contraddistinti da un titolo che è di per sé un componimento breve, quasi un dipinto en plein air, o un bozzetto naturalistico verista, un racconto fatto di luce, tempo ed emozione: “Una parola si bea, al sole, pulsando infinita”.
In questa mia disamina, mi soffermerò qui ed ora soprattutto sulle prime tre sillogi, quelle già a loro modo sedimentate e storicizzate, riservando agli inediti uno spazio ulteriore, una futura lettura analitica, quando potranno beneficiare anch’essi di una dimensione più definita. Qui ed ora le liriche inedite agiranno da specchio, adeguatamente mobile, e da punto di riferimento opportunamente cangiante per osservare anche in prospettiva l’evolversi della poetica dell’autrice.
Il libro si apre con un esergo ineludibile: “Caos / la Notturna / madre di Polifemo / ancora orrenda tra noi / Anticlea / la Divorante /madre di Odisseo / vent’anni di periplo / occorsero al figlio / per / ucciderla / onorarla / tenerla”. Parole possenti e spiazzanti che forse è utile tentare di scrutare nel profondo in abbinamento ad un altro elemento portante della struttura, il titolo. Ciò che è ancora orrendo tra noi è il Caos, con i suoi avi e i suoi figli, le generazioni interminate e interminabili della discordia e della disarmonia. Accade allora che solo il distacco dalle radici possa generare la libera espressione. Così come dissezionando analiticamente il silenzio e le sue innumerevoli forme si può giungere ad una parola che non sia solo descrizione della ferita ma anche cura, sutura, o almeno lenimento. Non è un caso che sia Ulisse sia l’autrice abbiano voluto e dovuto compiere un percorso ventennale per arrivare ad un condizione di sufficiente acutezza, distacco e al contempo coinvolgimento assoluto per potere vedere con i propri occhi “Una parola [che] si bea, al sole, pulsando infinita”. Questa è chiaramente un’impressione, quasi una sensazione più che un raffronto razionalmente fondato e dimostrabile. In ogni caso mi piace iniziare il percorso di lettura tra i versi della Merico con questo parallelismo adeguatamente azzardato, in tema con le peripezie di Ulisse e di tutti gli esploratori mai sazi di mare, di pensieri e di sogni.
“Segnate pietre” è, come già accennato, la raccolta che apre il libro. È stata scritta nel 2004, un anno relativamente vicino dal punto di vista cronologico eppure già distante per gli sconvolgimenti del modo di vita e per gli orizzonti sociali, per i comportamenti, per le presunte certezze e per le solide fragilità (per dirla con un ulteriore ossimoro) che sono sopraggiunte nel frattempo. Le pietre erano segnate, ossia possedevano un codice, un senso ulteriore, una traccia, una testimonianza del passaggio umano. Non è un caso che il simbolo stesso della resistenza al tempo e all’usura, la pietra, sia abbinata al più effimero degli esseri, l’uomo, il quale, tuttavia, in virtù e a causa dei suoi folli voli odisseici, ha il vizio di lasciare segni, ha la necessità innata di scrutare al di là, oltre le colonne poste al limite del suo spazio e del suo tempo.
“Scrivevamo con la voce scrutando i lapislazzuli dei manti / stellati. /Tra noi alcune possedevano il dono fondo della voce. / Tra noi alcuni possedevano il dono fondo della memoria. / Poi le parole presero ad impastarsi sulle pietre / attonite le guardammo / increduli le scrutammo / ne percepimmo i graffi. / Qualcosa s’era staccato da dentro / osservammo quel nudo imbozzolarsi / la sabbia prese a scivolarci tra le dita misurando un altrove / verso cui il lento scavava”.
Il libro parte “ab ovo”, dalla prima scoperta, quella che lascia attoniti e increduli, spauriti ma mutati dentro, in modo profondo, irreversibile. Le parole prendono forma salda sulle pietre e ciò che è istante diventa tempo privo di confini, ciò che è luogo preciso e circoscritto diventa un altrove collocabile potenzialmente ovunque.
“Di un’energia / che / forte / attraversa / mente e passi / di un’energia / che, accorta riempie le mani / forgiando gl’inizi / di un’energia / che, crudele affina i sogni / in trigonometriche misure / di un’energia / che, poetica strappa i legami / legando gli altrove / in aperte / spesse / serene / severità”. I versi della lirica dal titolo “Energia” qui riportata nella sua interezza offrono spunti per osservazioni tematiche ma anche stilistiche che valgono sia per la lirica specifica che a livello più ampio. L’autrice sceglie, a seconda del contesto, e seguendo parametri di impronta fonica, potremmo dire musicale, di alternare versi brevi o addirittura brevissimi, anche di un solo vocabolo, con versi più distesi, analitici, dettagliati. Nella lirica in questione, troviamo a breve distanza un “che”, riferito all’energia, dapprima isolato e possente come un dolmen, poi, poco oltre, lo si osserva collocato all’interno di frasi che indicano azioni, gesti umani. Progressivamente impegnato a riempire le mani, affinare i sogni, strappare i legami. Quasi una progressione drammaturgica, una rappresentazione in cui ancora una volta la pietra diventa segno, la solitudine si trasforma in coralità, il silenzio diventa voce, messaggio, canto, rito condiviso. Con una considerazione che parte dalla lirica qui osservata ma si estende ad una valutazione che abbraccia l’intero libro e di conseguenza all’intera produzione poetica di Anna Rita Merico, possiamo ribadire che la coerenza interna, sia a livello di scelte lessicali che sul piano delle opzioni tematiche è uno dei tratti distintivi e di maggiore rilievo. Ed è interessante poterla rilevare in un libro così variegato, scritto in epoche diverse.
Ci sono, per fare qualche esempio, dei termini ricorrenti che fanno da pietre miliari (e il richiamo alla pietra è anch’esso ricorrente ed evocativo). C’è, ad esempio, quel vocabolo potente e multiforme, “altrove”. Volta per volta lo identifichiamo nei versi dell’autrice, o è lui che richiama la nostra attenzione, in alcuni casi nelle vesti di qualcosa di distante intriso di malinconia (il dolore dell’altrove), in altri invece lo intravediamo come una meta, un punto di arrivo e di sviluppo, di evoluzione, essenziale mutamento.
“In una notte / di bianca lun’agostana / vi ho / viste toccate guardate ascoltate / aspre / come astri venuti dal fondo / di / oscuri orizzonti / cenciose come ricche concavità / attraversate da generanti / ferite / dolci come umidi sessi di mai / toccate dimore dell’intimo / nelle vostre pieghe ho letto / parole / gesti / venti”.
Il linguaggio elegante, di impronta classica, ariosa, in cui ogni parola assume una sua solennità, si unisce e crea fertili contrasti con l’urgenza del dire, la volontà di esprimere ciò che sta a cuore, ciò che preme forte per trovare espressione e forma. A questo scopo e in quest’ottica, la parola passa attraverso un fucina fatta di cura per il dettaglio ma anche di gusto per l’inventiva (si veda ad esempio quel “lun’agostana”) di vocaboli posti in contesti inusuali o addirittura forgiati ex novo, saldati per creare effetti sonori ma anche visivi, fornendo esperienza che abbraccia vari sensi e genera emozioni a più livelli. Tra le righe, soave, ma presente come un filo rosso da intravedere in trasparenza dietro veli e tendine, ci sono riferimenti e simbologie correlate alla sfera della sessualità e della sensualità. La lirica qui sopra citata ha per titolo “Origini”, ed è a metà tra musica e visualizzazione di una evoluzione, altra parola chiave e asse portante di questo libro. In un crescendo poderoso e ansimante, tutto quanto viene descritto assume una sua corporeità, una carnalità vibrante, evocatrice, generatrice. La parola, e tutto ciò che vi si collega e vi fa riferimento, è fucina ma allo stesso tempo materia generata. In un insieme coerente che è esso stesso poesia. Come recita la lirica “Inizi”: “E pensò ad una forma / gravida di forme / ma… quella forma / che poteva generare / non era più / solo / forma / era Altro”.
In calce alla silloge, come sigillo conclusivo che in realtà apre e lascia spalancate prospettive di interpretazione ulteriore, l’autrice annota: “Inizia, più di vent’anni orsono, un periplo intorno al forgiarsi umido della parola. […] Danzare il labirinto / misurare lo spazio / primo respiro.
Di quanti miliardi di labbra di tempo necessita una parola per mostrare la propria epifania?” Una sintesi coerente, è giusto confermarlo, anche in virtù di quella passionalità di fondo. Quel “forgiarsi umido”, e “quelle labbra di tempo” esaltano nella parola e con la parola il processo dell’ideazione come nascita e crescita e testimonianza di vita nella vita, a dispetto del tempo e del dolore.
Nel 2006, due anni più tardi rispetto a “Segnate pietre”, Anna Rita Merico pubblica “In the process of writing”. Viene riportato in apertura un brano di Scritture del corpo. Hèléne Cixous variazioni su un tema, pubblicato nel 2000 da Luca Sossella Editore. La dichiarazione, quasi programmatica, di sicuro evocativa, è stata scelta con oculatezza. È perfettamente in linea, infatti, con i temi e le ispirazioni della raccolta precedente, ma è al contempo una calzante descrizione di ciò che il lettore troverà nella raccolta a cui fa da apripista. Più in generale possiamo osservare che ci troviamo nuovamente di fronte a considerazioni che hanno valore a tutto tondo e ad ampio raggio.
“Accadono eventi che dicono un oltre. È un oltre in cui la narrazione e la necessità, l’incontro e la promessa vengono meno, dileguano su un orizzonte che mostra il suo essere già dato e conosciuto. […] Accadono eventi che trasformano la carne e i tendini in materia… materia che preme verso la forma della propria differenza. C’è una lingua che è lingua del corpo. C’è una parola che è lama dell’impasto placentare. C’è una scrittura che è linea provvisoria del desiderio. C’è un ritmo di fondo che è leggerezza interstiziale dell’infra. C’è una sospensione che è sospensione del corpo all’interno di uno spazio”.
I brani citati (tratti da uno scritto introduttivo che, come tutto il libro, va letto nella sua interezza per cogliere a pieno le sfumature, gli intenti, le correlazioni interne) abbinano la nitidezza espressiva ad una passionalità, che seppure incanalata con cura e dedizione, esonda comunque in opzioni sintattiche inequivocabili, travolgenti. La carne e i tendini si fanno materia, la lingua è quella del corpo, quella con cui si mangia o si bacia, e la linea provvisoria del desiderio è fonte del piacere del dire, del plasmare, della gioia tattile e sensoriale.
“Accadono eventi che addomesticano l’eresia consentendo di comprenderne l’intima tessitura e il suo materico spessore. Quante le infinite strade attraverso cui passa il filo della trascendenza? C’è una qualità sottile della trascendenza che ha a che fare con una dimensione corporea del pensiero e di una rappresentazione altra di sé”. La poesia in questa silloge incontra la filosofia e la scienza e il loro dialogare avviene con tutti i mezzi espressivi possibili. Con i cinque sensi, potremmo dire. Ed è di rilievo l’invito a considerare che ciò che rientra nell’ambito della cosiddetta “trascendenza” in realtà nasca comunque dal corporeo, seppure filtrato da una consapevolezza che passa attraverso la mente, il pensiero.
In una delle liriche iniziali si legge: “continua ad inorridire / la chiarezza di questa movenza / spessore del tenero / cecità della parola / continua ad inorridire / la forza di questa distruttività / orrendamente vitale”. A differenza della condizione di smarrimento assoluto da cui parte ad esempio la Terra Desolata eliotiana, qui subentra come spesso accade un vocabolo che contiene un mondo, a livello semantico ma anche di evocazione di potenziali concrete attuazioni: “una membrana d’imprevedibili tessuti / mi taglia fuori da ogni intrusiva vicinanza / mi lega ad ogni appartenenza”. Il distacco, la ferita, non trancia di netto, non isola in modo ineluttabile. Quel verso nitido e conscio, consapevole del suo schieramento, della scelta di campo, risuona a lungo nella mente e nel corpo: “mi lega ad ogni appartenenza”. Il risultato si coglie alcune pagine dopo, vivo, aperto, spalancato, non nella ferita ma nell’abbraccio: “Bocca affamata / dispettosa / tiranna / regina d’archetipo desiderio / origine spaccata nel due”. Una tirannia, indubbiamente, ma originata da umanissime necessità e vitalissimi istinti. “Un universo di timidezze / infilate tutte nella cruna di un ago / che / lento infila / colori / promesse / umidi muschi / succosi mondi”. La sensazione si lega alla razionalizzazione del percepire, e questa sorta di alchemica osmosi avviene in modo autentico e credibile in virtù della fluidità attenta e selettiva del dire che mima e incarna la fluidità dell’essere, l’immersione completa nell’amnios vitale: “Sprofondata nelle viscere di un caldo bolo / nel punto preciso in cui / liquido e materia / formano un’unica sostanza / palpitante / l’essere e la parola”. In una simbiosi di eros e pensiero, possentemente nitidi entrambi: “Traslucide le parti / si avvicinano / cercando gli incastri / colando sostanza / sigillando saperi”. Ogni vocabolo, verbo, aggettivo, avverbio, si muove all’interno di un gioco serissimo, tra danza ed esplorazione, tra coinvolgimento lucido e smarrimento passionale che alla fine riallaccia i fili e trova una dimensione ulteriore, la ritualità di un atto concretissimo, assolutamente umano, un modo corporeo di elevare qualsiasi dimensione sia correlata all’essere. “Formicolii di pacate cerimonie iniziatiche / attraversano infinite vulve gonfie di parole”. Il rito attraversa le epoche e le ingloba tutte, e con esse tutta la storia e la mitologia, tra ninfe, Sibille e Minotauri e tutto ciò che il pensiero antico, l’immaginazione senza tempo tanto cara all’autrice, ha evocato e reso immortale specchio dei desideri, degli incubi e dei sogni, di quella sospensione costante tra la natura terrena e qualcosa che sovrasta, sfida, gioca e persegue, costantemente. “Le segrete parole / si articolano nei muti rantoli degli enigmi sempre / interrogati / lì dove / le sorgive nutrono il respiro / e / il silenzio amplia gli intenti degli sconnessi sacri viottoli / in cui / la Storia / allenta la morsa / infrange il cammino / lascia nascere esistenze”. Quasi una lirica programmatica, una sorta di manifesto onnicomprensivo in cui l’autrice ci offre in miniatura un percorso, una mappa del suo territorio e della meta espressiva a cui tende e verso cui passo dopo passo ci conduce, “attraverso le morganatiche essenze d’ogni parola che dice / la vita”. E, qualche pagina dopo, in un completamento che è anche bivio, strada parallela, osserva e rivela: “Mi raggiungo annodandomi / acchiocciolandomi / avvoltolandomi / la vita mi bagna / dipanandomi”.
A suggello della silloge, un breve e intenso saggio, con riferimenti e citazioni accuratamente scelte e assimilate, un modo per parlare di sé anche tramite autrici affini, in grado di respirare la stessa aria, sentire lo stesso fluido, la stessa essenza. Sono presenti, evocate, citate, chiamate a testimoniare con la voce e con l’urgenza del sentire, Adrienne Rich, Chiara Lonzi, Clarice Lispector, Antonia Susan Byatt e Sylvia Plath, tra le altre. Un angolo del libro, quasi un salotto, in cui è un privilegio entrare fosse solo per sedere ed ascoltare il succo, il sunto, quella conferma che ognuna delle voci, dei corpi e delle menti sopra citate ci offre nitida: “Questo orizzonte è capace di indicare sia i rapporti con la parola inizialmente estranea che con la tensione all’inizio, alla presenza. La tensione al luogo: lì dove il battito avviene. In the process of writing… ossia nell’intimo del desiderio”.
Nel 2015, diversi anni più tardi rispetto alle due sillogi precedentemente trattate, esce la raccolta “Dall’angolo bucato entra memoria”. La dedica posta in apertura ha il sapore di un omaggio, ma richiama anche labbra aperte per lasciare uscire altro fiato reso parola, e forse bacio. È un sunto che lascia aperto tutto, ogni parte sensibile: “Ai compagni, alle compagne di viaggio, / ai nettari con loro condivisi”. Il nettare fa da fluido collante. Ci riporta al mondo classico, alla mitologia, ai banchetti delle divinità, ma anche ad umanissimi dialoghi e intrecci di menti e di corpi, di cammini condivisi con i cinque sensi, ancora una volta. È quell’elemento liquido da cui tutto nasce e a cui tutto ritorna.
Anche in questa occasione, l’autrice introduce la silloge con uno scritto e anche stavolta il titolo riassume bene il contenuto: “Tra gli occhi e il Sud”. Per viaggiare in una terra, anzi in un insieme di terre che sono altresì modi di essere e di percepire assolutamente unici. Per entrare in questa dimensione così privilegiata e complessa, solare e misteriosa, necessita un vademecum: “Quasi un filtro per tenere a bada i chiarori tra lo sguardo e il Sud, una lente per attutire morganatici impatti. Per viaggiare nei Sud esistono “guide” stemperate nelle epiche picaresche di destini individuali. Destini alla ricerca di significati esistenziali che si trasformano in lancinanti estetiche”. Dopo avere preso atto di ciò, possiamo incamminarci attenti e silenziosi come gatti randagi, all’interno di “borghi in cui la piazza e la campana fanno da Signore vezzose sui silenzi dei segni, sulle albeggianti motture… scandendo, impassibili, le tessiture della vita”. Anche stavolta, in nuce, in sintesi, in una specie di ampolla tra le dita di una Sibilla, abbiamo tutto già presente: ciò che abbiamo già trovato nelle sillogi precedenti (il silenzio e la voce, il vezzo passionale e l’impassibilità, il tempo e ciò che lo sfida, la passione dietro le persiane chiuse in una controra pigra in cui stillano fluidi, lacrime di malinconia, ma anche sudore e nettare di inestinguibili passioni): “la parola ha necessità dei giusti silenzi, / degli appropriati spazi, / di particolari slabbramenti verso l’interno. / Qui, l’Antico, parla. / Qui, la Luce, mostra”.
La caratteristica di questo libro è quella di racchiudere, per un mirabile effetto ottico che si fa tattile, tutto l’insieme di un mosaico in ogni singola tessera. Anche in questa terza silloge, il fenomeno, tutt’altro che casuale, frutto di coerente e costante lavoro di intarsi, si ripete: “ci richiamava come eco dal fondo / come voce di sirena suadente / come buco vitale di memoria / fu così che ci bagnammo / per toccarlo / come polveri di ferro attratte da calamita / lo palpeggiammo nudi nei corpi silenti”. I temi si rincorrono e si ripresentano agli occhi, in questo caso nella luce calda e viva del Sud. E ogni spostamento del punto di vista li rinnova senza mutarne l’essenza, concedendo ad ogni lettore di trovarvi dentro le angolazioni e le suggestioni a lui proprie, i chiaroscuri e i riflessi di luce pura, seduttiva, in cui il silenzio si fa corpo nudo e canta con cadenze antiche e attualissime la propria vicenda e la propria verità.
La topografia privata dei luoghi, Gravina, Alianello, Cancellara, Acerenza, Irsina e cento altri, diventa in tal modo universale. Ciascuno può farvi combaciare il suo orizzonte individuale, le albi e i tramonti, le ombre e i bagliori intrisi di memoria e di vita vissuta e ancora da vivere. “Ci copre una calotta azzurro cobalto punteggiata di strali / argentei. Mi bagno di una luce cristallina, luminosa. / Alzando gli occhi so che, quelle, sono le luci del deserto. / Degli abitati e pullulanti deserti dell’anima o del sud del Mediterraneo”. In questa terza silloge il linguaggio si adegua alle necessità del percorso, assume un ritmo da viandante tenace; ampio è il passo ma l’occhio sempre attentissimo al dettaglio rivelatore, allo specchio che si può celare anche in un sasso sulla strada o nella pietra di un antico palazzo.
Con tale cadenza, si arriva ad una poesia che è una sorta di radura panoramica in cui Anna Rita Merico parla di sé tramite ciò che scrive e mentre lo fa accade anche l’inverso, le sue parole parlano di lei: “Scavare intorno al gesto morbido del pensare /scrivere / poesia è atto che nulla ha a che vedere con l’intelligenza / razionale e consapevole. Interrogarsi su ciò a cui la parola / o il verso rimanda presuppone sia la condivisione di / un’esperienza conoscitiva che la non rammemorazione di / sé come soggetto identitario definito”. Frasi rivelatrici, anche dal punto di vista “diacronico”, nella relazione intima e profonda tra la scrittura e il tempo: “È un prima del pensiero fatto di maturità cruda del pensiero. / È un prima che viene dopo. È un prima antico che chiede / cura lunga per mostrarsi”. Ancora una volta l’esperienza individuale, diventa, come accade dove sussiste solida sincerità, archetipo universale: “È bene / è bene / che si torni / ora / a dire poesia / ora / che le parole / sono state rose / dagli aliti mefitici di gorgoni affamate / è bene”. Perché, una volta sfrondate tutte le parti vanamente estetizzanti, si giunge al risultato che davvero conta e vale, non solo in ambito letterario, si perviene e a ciò che “sveste i corpi / lasciandoli all’interno / della nudità svestita / che è l’essenza del pensiero”.
Con la passionale lucidità che la contraddistinguono, Anna Rita Merico al termine della silloge traccia una sorta di pagina conclusiva (tuttavia apertissima) del diario di bordo, un resoconto del viaggio della e con la scrittura. “Non è accaduto nulla. Non si vede nulla. Nulla appare spostato eppure, tutto, è conservato. Nessun movimento si annida, nessuno spostamento si percepisce ma, in realtà, molto è accaduto: una parola ha continuato ad essere parola, a dirsi. Una parola per dire l’umanità di dentro, una parola, per dire”. Il lettore concorda: tutto è conservato e molto è accaduto. Ancora tornano gli ossimori, ricchissimi e fertili, come sempre.
Questo libro contiene una varietà di spunti così ricca e vitale che è impossibile citare tutto e fare riferimento a tutto in modo esaustivo. Il consiglio e l’invito sono univoci: leggerlo, per scoprire tutte le sfumature e chiaroscuri di un organismo assolutamente vivo e vibrante, mai statico, neppure nelle parti più esplicitamente dedicate al ricordo e alla memoria. Con la promessa di ritornare a parlare, come detto in apertura, dei lavori inediti della parte del libro denominata “Una parola si bea, al sole, pulsando infinita”, mi piace qui riallacciare i fili, fluidi, resi umidi da mille rivoli di passioni, di cui è intessuto questo volume. La riflessione mai sterile, mai avulsa dalla corporeità, la memoria mai fine a se stessa, mai nostalgica rievocazione priva dell’impulso al mutamento e alla rinascita.
L’autrice di questo libro sa bene, lo ha dimostrato, che la parola nasce anche dagli occhi e dalle mani, dalle passioni e dai desideri, come dal silenzio nasce la voce e la comunicazione, sorge lo scambio, che è di per sé, pur nell’azzardo, vita reale, vissuta nella sua aspra e suadente interezza. Per dirlo con le sue stesse parole, possiamo concludere che in questo libro: “È accaduto che una parola ha trovato spazio e, chinata, attraversa, ancora, l’infinito delle mani di chi, di tempo in tempo, ha lasciato che emergesse e fosse nucleo di vita per ognuno, per ognuna”.
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