Bruno Di Pietro, Baie (In limine, Baie, Come se il sole calasse ad Oriente, Tanti quanti chicchi ha la granata. Oèdipus edizioni, 2019): un ascolto, di Anna Rita Merico

 

Nelle Baie. Rientri di dolci curve abitate da acque chete, contenute, assestate. Nelle Baie, zone di confine, zone di linee smussate. Le Baie ovunque. Nel limitare di un bosco fitto, nel passaggio terramare, nel rientro terragneo di un cratere ferroso. Baie, nel sonno: lì dove il sogno s’incista e l’incubo si frange. Baie nell’abbraccio del cercare. La baia che diviene linea molle della duna se solo la sollevi in posizione retta per inusitata topologia dell’anima. Nelle Baie il ritrovarsi per l’unica nostra necessità di uomini e donne in Viaggio: dare nome alle cose, stringere la clessidra del tempo, leccare la meraviglia della rivelazione.

Come leggere la poesia di Bruno Di Pietro?

Ogni Testo si svela obbligando il lettore ad una precisa postura che genera un adamantino e sottile taglio. È taglio che mobilita significato. Leggo la poesia di Bruno Di Pietro posizionandomi nell’ascolto della strofa, del verso, della parola. Si può leggere ascoltando?

La conchiglia, raccolta dalla sabbia calda, conduce nell’altra Baia lì dove noi, lettori, ci fermiamo. L’immobile dell’inedia avvoltola vele e parole nella stasi di dentro. In quella Baia lo sfinimento s’incolla al bordo d’un tramonto e c’ incappotta nel silenzio.

Qualcosa delle pietre prende a dirci e, pur se nell’incoscienza di un universo a cui questa poesia ci rimanda (un’infanzia dell’essere) iniziamo a guardare e sentire l’odore di ciò che lì è svanito come fosse foto scivolata via da pellicola rossastra, acida e liscia.

“…

Allora noi bambini

si andava per canneti

a fare capanne improvvisate

e cerbottane

mangiavamo la sorba spontanea

e una radice dal sapore di liquirizia

…”[1]

Occhi attenti ad ascoltare. Dialogo fondo. Parmenide sfiora l’andare. Ne razziammo frammenti, lì. Nulla fatto con forza. Accadde solo che ci tramutiamo in poro e, allora, lo scorgiamo partire nella meraviglia del cercare. Lì lo seguiamo. Lì tra l’onda ed il bordo di baia. Lì a scovare parole lasciandole dire nei retini del senso. Lì, al turbinio del granello mosso dal vento, ti scorgiamo, Parmenide, nell’incipit di cui stringi segreto.

Ti sappiamo lì, sull’orlo di sabbia. Nel punto preciso in cui l’autunno s’inalbera lasciando cadere i colori caldi del secco. Per Te, antico sapiente, nutriamo ascolto lasciandoti essere presente tra noi. Ti vediamo, cura del nostro dire su cui poggiare parola.

“tutto fu subito tremendo e chiaro

fra rossore nodo in gola ed occhi

mi guardi mi tocchi resto sepolto

fiore incolto in ingorghi di pensiero

ci voleva un giardino forse una serra

terra buona fuori stagione

ma eri impalpabile irreale

(il raccolto andò a male)”[2]          

E noi, che siamo di fronte, leggiamo e mutiamo. Cambiamo viso, fattezza, pelle. Con chi parliamo? È una poesia che ci mette in contatto con le nostre parti antiche, parti che dileguano respiro. E’ verso capace di unire parti. Ogni parte la sua baia mentre, tutto, oscilla tra passato lontano e presente d’attimo in cui carrellata di sentimenti e desiderio di presenza incatenano. Dall’erba serenità mentre l’occhio s’impodera tra api, pesche, ciliegie, il bello sommerge cullato da venti di deserti smarriti in nuovi arcobaleni di luce. L’amore torna a tenere essere e speranza. Ogni baia è risucchio di luogo d’amore antico per l’Essere. È amore che tiene, cova, accende nell’atavico di un’ontologia che si riscrive in versi.

Ecco: il ritorno d’azione della parola di Bruno Di Pietro è nel suo pretendere l’ascolto più che la stessa lettura. E’ parola che oscilla fuori da un io poetico centrato su sé. È un io poetico che dice l’altro. È io che ha compreso quanto il saper far sostare e tenere l’altro fa nascere parola di sé, parola di scavo e per lo scavo dell’essere in poesia. Il consentire all’altro di aggiungersi e, insieme, sottrarsi a sé per essere noi, genera senso immettendo in quella dimensione fluida e ondivaga che diviene alveo di parola, forgia di composizione. Nel gioco dell’andare in due si affina la modalità di gestione della parola che può consentirsi forme di immedesimazione pressoché infinite.

“spegni per sempre la luna

il buio esalti la differenza

lasciami sulla bocca la presenza

della tua scienza bruna”[3]

È verso che evoca la minuzia del quotidiano e, insieme, la divinità fatta di lari vicini e sospensioni del tempo. Il corpo s’agglutina nella bocca, bocca contatto, bocca carezza, bocca parola, bocca serrata. Spiazzante il gioco degli slittamenti

“era grigio fuori

ho sognato

di raggiungerti

aggrappato alla pioggia”[4]

Sono spiazzamenti che delocalizzano lo spazio e i suoi elementi. Sono testi brevi in cui il passato diviene gamma dell’eterno. Ciò che è trascorso è stanza di memoria in cui pensiero e solitudine e ombra e soffio di vita s’inframezzano e tessono l’andare. Talvolta il movimento è nominato nell’immobilismo che segna l’assenza, la presenza del pensiero, il nulla che accompagna lo stacco e ciò che avviene lento come in un’antica cerimonia del tè

“la notte avvisa

chi in attesa

intende”

o, ancora, dondolarsi sulla pazienza “…la pazienza infinita/ di estrarre il pinolo/ dalla pigna” come fosse filo d’amaca irreale. L’universo d’indagine si restringe su di un granello e slabbra la realtà ingigantendola al microscopio di sguardo tagliente ed indagatore. Sguardo che sa immergersi nel mondo vegetale donandogli identità e spessore e togliendo centralità al mondo identitario umano. La poesia di Bruno di Pietro dona la frescura dell’infinito rivolgimento con il tempo, con i punti di vista, con il dialogo continuo cui il lettore è chiamato.

“disseta

la rugiada del primo mattino

la chiocciola

dopo il notturno sontuoso

banchetto”[5]

Esplosione vitale, narcisi, fenicotteri, saturi pomari, fiori, uva, querce. Uno sfavillio di pieni inonda l’animo che canta l’antica meraviglia dell’essere. È la poesia di Bruno di Pietro.

 

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[1] Bruno di Pietro, Baie, Oédipus 2019, pg 15

[2] ivi pg 21

[3] ivi pg 36

[4] ivi pg 46

[5] ivi pg 60