A tentoni nel buio di Paolo Polvani | In fin dai conts se ch’a ti coventa?  In fin dei conti cosa ti occorre?(note di lettura a Forsi il vint – Forse il vento di Francesco Indrigo, Arcipelago Itaca 2022)

 

 

La lingua è lo strumento che ci consente di conoscere e possedere il mondo, e possedere più lingue significa possedere più mondi. Il friulano è una lingua romanza con forti derivazioni dal latino, ma, come per gran parte delle lingue regionali dell’intera penisola, ha subito gli influssi di tutti quei popoli che l’hanno dominata e nei secoli attraversata per ragioni di traffici mercantili, di guerre, di migrazioni, di spostamenti per i più svariati motivi, così nella lingua friulana ai primigeni residui celti si sono aggiunti elementi longobardi, e poi goti, e poi franchi. Sicuramente essere terra di confine favorisce la ricchezza lessicale, e probabilmente la posizione ha in qualche modo a che fare con la creatività, non si spiega altrimenti il numero davvero notevole di poeti in quella regione, poeti che scrivono sia in friulano sia in italiano.

Forsi il vint (Forse il vento) è l’ultima produzione poetica di Francesco Indrigo, valido rappresentante di quella regione incline alla poesia, pubblicato nel 2022 dalla casa editrice Arcipelago Itaca, e prefato da Manuel Cohen. Pur avendo contatti frequenti col Friuli, non conosco bene l’accento e la pronuncia di ogni singola parola, e tuttavia resto affascinato dalla rotondità, dalla luminosità fin dai primissimi lemmi della primissima poesia: ‘I sgarfi peraulis: Io rovisto parole; stesso compiacimento espresso in maniera illuminante dall’autore nella poesia Sisaròl: io sono un semplice viaggiatore, veloce e persino a volte distratto, ma qui, in questa poesia, l’autore celebra la sua lingua con estrema consapevolezza, in questa poesia l’autore dichiara: è bello dirlo nella mia lingua, una cosa rotonda, dolce, Cesarolo..buona da masticare, da succhiare; credo che lo spirito del libro sia soprattutto qui, in questi versi, nella consapevolezza del profondo legame instaurato tra l’autore e la sua lingua:

                         Sisaròl

Sisaròl, ma se rassa di non ‘l ea?

S’al volia di? Epùr uchì ‘i j soi nassùt

e vivùt, e cualchi volta encia muart.

Sisaròl, al è biel dilu tal me lengàs,

‘na roba tonda, dolsa, Sisaròl.

Buna da rondolà in bocia, di mastià,

di supà, di spudà.

            Cesarolo

Cesarolo, ma che razza di nome è?

Cosa significa? Eppure qui ci sono nato

e vissuto, e qualche volta morto.

Cesarolo, è bello dirlo nella mia lingua,

una cosa rotonda, dolce, Cesarolo.

Buona da rotolare in bocca, da masticare,

da succhiare, da sputare.

Ugo Pellis il novecento contadino in Friuli Venezia Giulia

Dichiara l’autore: “cerco di dare nomi / ed essenza alle cose che abitano / oltre il recinto, dove il vento / si sposa con la terra fertile / e sotto il gelso cavo, / la talpa incontra la sua luce”.

E di quale luce si vestono gli incontri, le cose, le persone, le vicende che si susseguono in questa raccolta? Di una luce tenera e diretta, una luce efficace e sicura, che svela i dettagli, che rievoca, accarezza ogni cosa: Pier Paolo veniva a ballare qui, alla festa di Santa Sabina, e adorava il tango, e le ragazze luccicavano, e a notte fonda rincasavano sottobraccio cantando Bandiera rossa. Pasolini dunque, i cui versi friulani a detta di alcuni rappresentano il livello più alto della sua poesia, e più avanti Alda Merini, e “quel vento invaghito di lei”.

È inoltre un libro ricco di figurine disegnate con tratti veloci ma significativi: “lui non smette di sorridere, distribuisce il mais / frantumato alle galline e mi indica / il falcetto appoggiato sulla siepe, / pare che l’erba non possa attendere”. E poi il “fratello friulano”, un senegalese con vocazione mercantile, dal quale l’autore acquista quattro magliette e un pacco di calzini, per pura, semplice fratellanza umana.

E poi l’orologiaio Tin, che cerca l’anima del tempo, e l’ennesimo ipermercato davanti al negozio delle biciclette, e tutta un’umanità colta nel suo momento di fragilità: “Quale peggior insulto del morire / al culmine dell’estate”.

Il libro è stato premiato nella settima edizione del premio nazionale editoriale di poesia Arcipelago Itaca, e nella motivazione si legge: “In queste rapide visioni diversi sono i “motivi” che si possono riconoscere e definire come dominanti. La natura (flora e fauna, anche domestiche, insieme ad un’idea contadina e malinconica della “terra”) è il sottofondo, lo scenario diremmo attivo – in quanto soventemente protagonista del fluire dei versi – sul quale si muovono le riflessioni dell’autore e l’autore stesso (le rare volte in cui l’“io” poetico si palesa in prima persona)”.  E nella prefazione Manuel Cohen scrive: “Ecco allora che il vento è il portato di un’essenza, di un destino, di un dolore, di un grido: il vento che soffia e gira pagine e pagine bianche in cui è scritto per sempre o solo per un attimo il dolore del mondo”.

Il libro possiede un respiro domestico, gli affetti, le cose, le persone, i paesaggi che fanno da sfondo, la natura, in apparenza parrebbero relegati, in virtù della lingua dalla connotazione locale che li illumina, in un’area dai confini ben delimitati, quelli dell’appartenenza geografica, ma solo in apparenza, perché, al di là della perfetta traduzione dell’autore, che scrive anche in lingua italiana, i temi trattati e la gentilezza sonora della lingua adoperata, ne fanno un libro dal respiro universale, basti pensare a certi avvii di alcuni testi: Quale peggiore insulto del morire / al culmine dell’estate”, oppure “il sole di primo mattino fischietta ai passeri”, e ad alcune chiuse: “traduco in parole le ombre della notte”, per richiamarne soltanto alcune, perché durante la lettura sono in realtà tanti gli squilli della poesia, e  l’intero libro andrebbe letto e riletto, un libro che promette, e mantiene sempre, grandi voli e un bellissimo viaggio.

 

ph Ugo Pellis

 

In fin dai conts se ch’a ti coventa?

‘Na stropa pissula e un portèl, magari

sempri viart. E par di cà i rosars, il ros

dal aiar giapones a insingarà i franzei,

un pissu sotpuarti dulà, strac di massa lùs,

poià ‘na ociàda neta tal fil dal mont.

E po enciamò scrivi e scoltà l’arba,

che sidìna a morosea cul vint.

E ch’i ti varàs di taià.

E tal sotsera ‘na femina ch’a torna,

ta ‘na ciasa no granda, dentri un rispìr

cuièt, in-tal miez di un sièl pissu. Dut chì.

In fin dei conti cosa ti occorre?

Una piccola siepe e un portoncino, magari

sempre aperto. E di qua i roseti, il rosso

dell’acero giapponese ad ammaliare i fringuelli,

un piccolo sottoportico dove, stanco di troppa luce,

posare uno sguardo terso sull’orizzonte.

E poi ancora scrivere e ascoltare l’erba,

che silenziosa corteggia il vento.

E che dovrai tagliare.

E al crepuscolo una donna che torna,

in una casa non grande, dentro un respiro

calmo, nel mezzo di un cielo piccolo. Tutto qui.

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 Il veciu Tin a ju viarzeva a plan,

cun duta la buna grassia dal mont.

Po al meteva dutis chès rodelutis,

chés vidutis picininis pì che lusignis,

in fila tal tapetin vert dal siò taulinut.

Mecanisims mistereos e striàts

che doma lui al saveva cumbinà.

“’I vai in sercia da l’anima dal timp”.

A mi diseva. L’orloiàr al è il mistièr

pì vissin a diu. Il veciu Tin al è muart

sensa pandi nuia e a me a mi à tociàt

meti su ‘na meridiana.

Il vecchio Tin li apriva piano,

con tutta la grazia del mondo.

Poi disponeva tutte quelle rotelline,

quelle vitine minute più che lucciole,

in fila sul drappo verde del suo tavolinetto.

Meccanismi misteriosi e affascinanti

che solo lui governava.

“Cerco l’anima del tempo”.

Mi diceva. L’orologiaio è il mestiere

più vicino a dio. Il vecchio Tin è morto

senza rivelare nulla ed io ho dovuto

installare una meridiana.

 


 

Francesco Indrigo è nato a San Michele al Tagliamento, attualmente risiede a San Vito al Tagliamento. Ha pubblicato in riviste, antologie e quaderni sparsi. Le sue raccolte sono: Matetas; Foraman; Foucs; Revòcs di tiara; La bancia da li’ peraulis piardudis; Nissun di nun. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti in premi di poesia nazionali e internazionali. Fa parte del gruppo di poesia / laboratorio Majakovskij, con il quale ha pubblicato altri quattro libri.