A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Divani sprofondati sotto il peso dei malanni (note di lettura a Il mare beve me stesso, di Francesco Cagnetta, Arcipelago Itaca editore 2021)
Mi chiedo se esista un criterio per comprendere da quale origine provengano i temi della poesia che scriviamo, se al posto d’onore fare accomodare l’esperienza, o se siano le letture che influenzano certe scelte, oppure quale sia il giusto percorso per individuare l’origine dei versi.
Le vicende individuali sono le più disparate, come anche le propensioni soggettive, così accade che le atmosfere familiari costituiscano un retaggio da cui tentare di svincolarsi e la poesia possa fungere da percorso terapeutico capace di liberare da eredità difficili da metabolizzare in altri modi. Si tratta di un’ipotesi, un tentativo di individuare i motivi alla base di alcune scelte. Questo perché è il dolore il tema del libro di Francesco Cagnetta, Il mare beve me stesso, edito da Arcipelago Itaca nel 2021.
Ora una religione che ha fatto del dolore, della sofferenza, il suo principale campo di indagine è il Buddismo; traggo da Storia delle credenze e delle idee religiose, di Mircea Eliade, questo brano: “La prima Verità riguarda la sofferenza o il dolore, in quanto per il Buddha, come per la maggior parte dei pensatori e religiosi indiani a partire dall’epoca delle Upanishad, tutto è sofferenza. Infatti, la nascita è dolore, il declino è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza. Essere uniti a ciò che non si ama significa soffrire Essere separati da ciò che si ama, non avere ciò che si desidera, significa soffrire”.
L’aspetto sorprendente del libro di Francesco Cagnetta è che le quattro inevitabili sofferenze, di cui il buddismo si occupa, che sono appunto la nascita, l’invecchiamento, la malattia e la morte, sono tutte rappresentate conformandosi appunto a tale successione. Soltanto l’autore sa se uniformarsi a tale sequenza sia stata una conseguenza della conoscenza del buddismo oppure, semplicemente, sia solo un modo di ricalcare l’esperienza diretta, personale.
La raccolta si apre con i versi – Alzai la testa, chiusi gli occhi per uscire / e il dolore era già lì, impresso sulla faccia / al casello del primo fiato -. Fin da subito quindi viene messa in evidenza la prima, fondamentale sofferenza della nascita, sofferenza che viene ripresa anche in altri versi successivi, tra i quali questi: – Non si esce dal grembo di donna / come non si torna nella cellula di madre / all’origine del dolore che ci partorì -.
Anche il dolore della crescita trova spazio nei versi: – Al cambio stagionale cadono i capelli / e bisogna cambiare il filtro al lavandino / parti del corpo prendono il largo / da questo dolore…-.
Anche la malattia è ampiamente ricordata in molti versi, “la cucina è diventata un ospedale / senti solo ansimare e bestemmiare / che in fondo è tutto uguale”, e più avanti si accenna ai divani sprofondati sotto il peso dei malanni, e degli anni che restano appesi come quadri alle pareti “e di noi / di quando questo dolore si annunciava / e pensavamo fosse un fischio d’orecchi / il mal di testa plumbeo del cielo”.
L’argomento morte trova ampio spazio nei versi: “questo andare incontro alla morte / senza volerlo”, e più avanti: “seppellire i morti è opera di misericordia” e tutta la raccolta è pervasa dal senso della precarietà, del difficile equilibrio destinato a spezzarsi. E qui mi tornano alla mente alcune preziose riflessioni contenute nelle parole di uno psicoterapeuta, Vito Calabrese, il quale ha scritto un libro, Portarsi in salvo, in occasione di un grave lutto familiare:
“La scrittura costituisce un tentativo per ripristinare un equilibrio”, e inoltre: “il trauma abita un non luogo, è importante creargli uno spazio, perché solo ciò che ha trovato un luogo può essere rimosso”.
Quindi la scrittura come punto di partenza per la salvezza. La scienza non si occupa del male, ma la letteratura si, e così scrive:
“I romanzi e le opere poetiche sono uno dei pochi luoghi rimasti in cui si riesce a rappresentare il dolore, in cui si riesce a meditare sul male, la tragedia e la sofferenza”.
Ma al di là del tema, complesso, profondo, universale, in che modo si presenta questa raccolta, come viene organizzata, realizzata? Il libro è articolato in tre capitoli, La conoscenza del dolore, Dolore familiare, Verbo chiuso. Ad ogni capitolo è affidato il compito di allargare e approfondire il tema. Inoltre i testi sono arricchiti da quattro fotografie dell’autore, il quale, oltre alla scrittura poetica, conosce l’arte del racconto per immagini. Mi colpiscono gli incipit di ogni testo, che accendono un cono di luce capace di illuminare lo snodarsi dei versi, un’anticipazione che racchiude, come un titolo, come lo schiudersi di uno spiraglio, quello di cui si parlerà: – Da quando vivete soli / non spengo il cellulare – oppure: – Coltivo il corpo come una foresta -; – L’inganno è la sola verità che conosco -. La lingua è piana e diretta, priva di eccessi e di impennate retoriche, sempre addomesticata e funzionale al discorso, e tuttavia efficace, intessuta di immagini e metafore sorprendenti, come in questa sequenza:
Ma l’atlante del dolore si espandeva
metteva bandiere e capitali
ci faceva schiavi senza saperlo…
La parola dolore è la protagonista assoluta del libro, ripetuta in maniera ossessiva, è presente in quasi tutte le poesie, alla ricerca evidente di un luogo che le conferisca fisicità e faciliti l’azione di rimozione, o quantomeno di alleggerimento; del resto anche il titolo richiama un gorgo, una voragine che tutto ingoia, che non consente vie d’uscita. È nel capitolo finale che sembra dischiudersi uno spiraglio, una possibilità di salvezza, si parla di uno squarcio “sempre aperto a ogni mia domanda”.
Alzai la testa, chiusi gli occhi per uscire
e il dolore era già lì, impresso sulla faccia
al casello del primo fiato.
A quel tempo parve cauto, previdente
- un rumore al mercato della voce –
lento si annunciò, si fece preghiera
e necessità, misura del limite,
cordoglio in prima persona.
Allora pensai che il dolore fosse chiuso lì,
tutto in una tasca e che bastasse
gonfiare le vene fino a cento
mancare l’appuntamento
sottrarre il corpo al suo feroce abbraccio.
Fu così che imparai a contare i secondi
e la salita, a contare solo sulle dita.
° ° ° ° °
Aspettare è un dolore più grande che andare,
chi contrerà la fine di questi giorni
appesi come merletti cinesi dietro le persiane
come lo sguardo su ogni promessa
a chi toccherà fare l’appello
bruciare i detriti
mettere a posto i vestiti?
Seppellire i morti è opera di misericordia
lo ricorda la chiesa e purifica l’aria
ma per riempire le stanze dei ricordi
per lenire il rimorso chiuso nella gola
nessun dolore, nessuna guarigione,
nessun dio è stato inventato.
° ° ° ° °
Questo dolore familiare
è un tiro alla fune
stringe spazi tra i denti
l’evidente morsa dei perdenti.
E come un laccio
striglia il fendente
allontana sempre più
chi tira
da chi ha deciso
di mollare.
° ° ° ° °
Papà è stanco di sprecare il tempo per niente
tutte le mattine si alza presto
per trovare qualcosa da inventare.
Mamma si stanca a mettere in piedi
quelle poche ossa che restano
tutte le mattine si alza presto
per trovare qualcosa a cui pensare
un nuovo dolore da provare.
Francesco Cagnetta, nato nel 1982, vive a Molfetta. È avvocato. Ha frequentato la Scuola Pound curata da Michelangelo Zizzi. Alcuni suoi testi sono stati pubblicati e recensiti in rete su blog letterari come Neobar, Zona di disagio, Poetarum silva, e sulle riviste Il ClanDestino e Anterem. Altri testi sono apparsi nelle antologie Trittico d’esordio, a cura di Anna Maria Curci, Cofine 2017; Come una mezzaluna nel sole di maggio – Ricognizione della poesia pugliese 1975 / 1994, Fallone Editore 2017; Dalla fine del mondo, Luce e vita Edizioni 2018. Nel 2020 esordisce con Pianeti di carne, Edizioni TransEuropa. È risultato tra i finalisti del premio internazionale Alda Merini e Talento da poeta; ha ottenuto una menzione d’onore al premio Lorenzo Montano 2018 e 2019 e al premio Internazionale Don Luigi Di Liegro 2020.
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